Se dovessi riassumere quello che si prova quando non si vive in Sardegna, pur avendoci le radici, è l’istantanea del porto che si allontana. Il momento in cui la nave si stacca dalla banchina e le luci di Porto Torres, Olbia, Golfo Aranci, Cagliari si fanno sempre più lievi e sfumate, sino a sciogliersi in un impalpabile contorno che lascia spazio a un mare che sembra sconfinato e che collima con uno straziante stato d’animo. È la sensazione di ignoto, il martellante presentimento di non poter far ritorno a breve, la percezione di scollamento da qualcosa che, anno dopo anno, comincia inevitabilmente a non appartenerti più. Da quel preciso istante in cui l'immagine della banchina si stropiccia come una vecchia foto riparte, in un ciclo infinito, una ruota sentimentale fatta di contrasti, ossimori, consapevolezza e speranza, malinconia ed entusiasmo che dialoga con un calendario diverso da quello della quotidianità. Un calendario di ricorrenze, occasioni, ponti, ferie. Il calendario di chi non vive più in Sardegna con il corpo, ma vi ha lasciato un pezzo d'anima. 


Ci si appiglia, così, a un passato conosciuto e rassicurante, una collezione di ricordi che attingono all’infanzia e alla giovinezza a filtrare il racconto del presente che arriva dagli affetti, da chi continua a vivere gli stessi luoghi e contesti che invecchiano e mutano seguendo una linea parallela ma intangibile rispetto alla nostra.
Val la pena rileggere la definizione di disterru offerta dal Ditzionàriu in línia de sa limba e de sa cultura sarda per comprendere la complessa altisonanza di una parola spesso associata agli emigrati:

distérru, nm su che bogare, leare e istesiare cun sa fortza a unu o fintzes gente meda de logu suo a logu istràngiu po chi no potzat fàere che in logu e cun gente chi connoschet, o su chi onestamente dhi aggradat o serbit, mescamente po no fàere umbra a su guvernu, o po dh'isfrutare: fintzes su logu de custu istare atesu; su èssere emigraos, in logu angenu po trebballu, po bisóngiu/segai su d.=lassare su logu ue unu che est disterradu confinu, emigrassione, isterru unu tempus su pópulu de Israeli fut in su disterru in Babbilónia ◊ cantas disamistades e disterros li sunt passados cue sut'a ojos! (P.Casu)◊ at a finire su disterru chi nos grusat sas dies de sa vida! (P.Mossa) 2. penso gai a sos fizos de Sardigna, in disterru e pelea in logu anzenu ctl., spn. desterro

Per lavoro o bisogno”, recita la definizione. Ma il bisogno, forse, ha un senso più alto di quello economico.

È il bisogno di ritrovarsi altrove, di riconsiderare le radici, di tagliarne una parte per far rigenerare il terreno, di sperimentare la creazione di talee virtuose in luoghi altri.

Il trascorrere del tempo dimostra quanto già sappiamo: i sardi hanno la capacità di far crescere radici forti anche oltre le coste isolane; radici che però, per le misteriose vie della Terra, tornano sempre in Sardegna. È questa vicinanza-lontananza ad alimentare il senso di disterru inteso come un torto, come se non fossimo stati noi, ma altri, a decidere di andar via, di emigrare.

A suggello dell’incapacità di uscire da un circolo che ormai ha trovato la sua strada e, per quanto non lo si voglia ammettere non riporta in Sardegna, c'è il momento in cui le prime due domande che vengono rivolte da persone che si ha l’impressione di aver lasciato un attimo prima iniziano a diventare sempre le stesse : “quando sei arrivata?” e “quando riparti?”. Perché non si risponderà mai con "Resto”, se non in casi eccezionali, ma con una data, un momento, seguito da un commento sulla quantità di secondi, minuti e ore in cui le radici si riavvicinano.

Servirebbe allora forse una nuova parola per inquadrare questa sensazione di scollamento, una parola che sappia unire la consapevolezza della partenza che attanaglia dal momento dell’arrivo a casa, quando tutto dovrebbe essere lieve, a quella frattura costante tra quello che si ricorda e quello che è.
Nel suo Atlante delle emozioni umane, Tiffany W. Smith riporta l'esperienza dei gallesi che riassumono con la parola Hiraeth l’idea di ferita che non si rimargina, di strappo, di nostalgia per quanto è stato.

Personalmente, non avendo ancora una parola, continuo a proiettare nella mia mente un quadro, visto diversi anni fa nella sede del Messaggero Sardo, a Cagliari. La testata per oltre quarant’anni ha accolto storie, persone e pensieri dell’emigrazione sarda nel mondo. Diversi anni prima della mia emigrazione verso il Continente, stavo lavorando alla mia tesi di laurea sul ruolo di promotori culturali e custodi della memoria dei circoli sardi in Italia e nel mondo. Fu allora che lo storico direttore, Gianni De Candia, in una bella mattina di febbraio mi accolse nella sede di via Barcellona 2, aprendo le porte di un mondo fatto di nostalgia, ricordi, legami. Nel suo studio c’era un quadro che non ho mai dimenticato. L’aveva realizzato un emigrato e raffigurava un uomo pronto alla partenza, con il classico vestito buono, ma era come se, insieme a lui, in quell’esatto momento si stesse staccando un enorme pezzo di terra, la sua terra, sradicandolo. L’opera è stata riproposta nel volume firmato proprio da Gianni De Candia, "Sardegna. La grande diaspora" che racconta la storia del Messaggero Sardo.

 

Io ho ripreso il tema e il quadro in una pagina di "Paesitudine dell’Avvento", tra i racconti della Comaredda, collegandolo alla parola abbarbicarsi e raccontando il mondo di chi, invece, sta.
Per me il senso del disterru è quel frammento che viaggia con chi va via, ovunque ci si trovi. Col passare del tempo si assottiglia, riducendosi a qualche filo d’erba sparuto, a foglie e frammenti di terra e sassi, ma sta con noi.
È una foto, un modo di dire che non si usa nemmeno più, uno scorcio, un dettaglio, il nome di una via, un terrazzino pieno di palloni gonfi, un giardino, una fontana, uno sguardo rassicurante, un profumo, il suono delle posate che riempie i vicoletti la domenica, una pianta da cercare, un fiore da trasformare in tisane, la consuetudine del minestrone di venerdì, la corrispondenza forzata per associare luoghi distanti, il rimorso per non aver conservato, vissuto, chiesto abbastanza, una foto, uno scritto, una firma, un ricamo, un libro. Una clessidra da rigirare ogni volta che ci si sente domandare “quando torni?” e, al ritorno “quando riparti”?


Esiste una parola per riassumere tutto questo?

 

 

 

 

 

 

 

Autore dell'articolo
Mariella Cortes
Author: Mariella Cortes
Curiosa per natura, alla perenne ricerca di luoghi da scoprire, persone da raccontare e storie da ritrovare. Giornalista dal 2004 per carta, televisione, radio e web, lavoro a Milano come formatrice per aziende e professionisti e come consulente di marketing e comunicazione. FocuSardegna è il filo rosso che mi lega alle mie radici, alla mia terra che, anche nei suoi silenzi, ha sempre qualcosa da dire. Mi trovi anche su: www.mariellacortes.com
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