La penisola, stretta e lunga tre chilometri, è bagnata ad ovest dal Mar Sardo, che lì tutti chiamano Mar Vivo perché più aperto e vigoroso, frustato spesso dal maestrale. Ma sulla costa orientale le acque del golfo di Oristano, il cosiddetto Mar Morto, riparato dal vento, garantivano approdi sicuri.
E un popolo di naviganti come quello dei fenici sapeva bene dove attraccare. Poi c’erano l’entroterra, fertile da coltivare e ideale per pascolare, il sottosuolo gravido di minerali, gli stagni salmastri fitti di muggini e anguille. Ricchezze notevoli capaci, insieme ai commerci, di far diventare Tharros una delle città più floride del Mediterraneo. Lo dicono le sue case spalancate sul mare, le lunghe file di botteghe, i templi, le terme, le mura possenti, le necropoli ricche di corredi. Milleottocento anni ha vissuto la città di Tharros: dalla fondazione fenicia, ottavo secolo avanti Cristo, al dominio romano, al periodo bizantino, alle scorrerie saracene, all’abbandono nel 1070 dopo Cristo. Il tempo ha consegnato alle dune lo scettro della città: la sabbia chiara ha cancellato piazze, quartieri, santuari; il vento continua a modellare colline che seppelliscono la storia. Quello che affiora (colonne, blocchi di pietra, decorazioni) viene portato via, per ornare nuove chiese e nuovi palazzi. Con lo spoglio sistematico del secolo scorso e con i primi scavi molto poco scientifici, come in tutte le grandi aree archeologiche italiane, è stato riportato sommariamente alla luce quel che rimane dell’antica città.
“Leggere” una città morta non è facile, ma è bello provare ad immaginare lo scorrere della vita di un tempo mettendone a fuoco i dettagli più concreti. L’acciottolato romano del “cardo maximus”, il corso della città affiancato da botteghe, dove gli artigiani punici lavoravano il corallo e producevano splendidi scarabei in diaspro verde. Sotto le vie passavano i tubi in piombo che convogliavano verso gli edifici pubblici l’acqua portata all’acquedotto: a Tharros c’erano tre impianti termali, con spogliatoi, sauna e piscine calde e fredde.
Una volta arrivati in cima alla strada, si passa davanti al templi come quello “delle semicolonne doriche”, ove un tempo due superbi leoni di arenaria facevano la guardia all’ingresso, proprio in faccia a chi arrivava dal mare per entrare nel porto di Tharros. Nei quartieri residenziali, la gente viveva in stanze disposte intorno a un cortile, con muri intonacati e a volte dipinti e i pavimenti in cocciopesto. Uomini con mantelli color porpora, con gioielli raffinati, le ceramiche a vernice nera con piccoli stampi a forma di conchiglia, le grandi anfore per il vino, le brocche per l’acqua. Grande fermento doveva sempre esserci nella zona del porto: Tharros è stata per secoli un punto strategico dei traffici del Mediterraneo e anche uno dei principali porti d’imbarco del grano sardo. La vitalità economica si è estesa presto in tutto il Sinis. Solo la valanga distruttiva dei Vandali, che conquistarono la Sardegna tra il 456 e il 468, fece cadere la città nella crisi che l’avrebbe poi portata alla rovina. Visitare Tharros e le sue pietre antiche, fra strade, mura, templi e terme, nelle tiepide notti estive, è un brivido di vita che tornerà a scuotere la Signora dei due mari.
Gli abitanti di Tharros si trasferirono nel 1100 dopo Cristo nelle zone più sicure e fertili di una città nata alla foce del fiume Tirso, nelle terre della famiglia Aristia: Oristano, che ha preso il nome proprio da quella famiglia. Oristano entra nella cronaca in epoca giudicale come capoluogo del giudicato di Arborea. Ma l’età d’oro giunge nel 1400, quando la città si oppose al dominio catalano, trascinando poi larga parte dell’isola. Nella lotta, giudice reggente era Eleonora d’Arborea. Sua la famosissima “Carta de Logu”, cioè del territorio di Arborea, promulgata nel 1392: si tratta di un compendio di leggi che vennero poi estese a tutta la Sardegna nel 1421 e che rimasero in vigore fino al 1827.
La morte di Eleonora aprì un’epoca di conflitti che si conclusero con la vittoria degli Aragonesi. Perso il potere, Oristano decadde. Risollevata dai Savoia e bonificate le campagne, la città è dal 1974 la quarta Provincia di Sardegna. Il ricordo delle origini remote si rinnova ogni anno a carnevale con la Sartiglia. Da vedere in città: il Duomo, voluto da Mariano II nel 1228; la Torre di San Cristoforo, che sovrasta piazza Roma; l’Antiquarium Arborense, che raccoglie le testimonianze archeologiche della vicina Tharros.
Vicino ad Oristano, merita attenzione la cittadina di Santa Giusta, l’antica Othaca, città vecchia, dal 1200 dopo Cristo omaggio a una martire locale. Da vedere anche la cattedrale, in stile romanico, del 1135. Lo stagno di Santa Giusta è pescosissimo. Lo stagno di Sale Porcus, habitat privilegiato di fenicotteri e di altri volatili che si prosciuga d’estate; e naturalmente Cabras e la sua laguna a dieci chilometri da Oristano, dove ancora oggi è possibile vedere sull’acqua i “fassonis”, barche di antichissima origine in giunco. Nelle carte medievali Cabras era denominata “Mar ‘e Pontis”, uno stagno grande come un mare, un ponte ideale tra Tharros e Otacha. Ultima nota: la bottarga di uova di muggine, magari innaffiata di vernaccia locale. È una esclusiva oristanese.
Massimiliano Perlato