Ci sono due modi per affrontare i problemi del turismo nell’isola.
1) Porsi dalla parte del viaggiatore, di colui che sbarca in uno dei porti o aeroporti, che deve raggiungere la meta designata, che necessita di strade o di servizi di trasporto pubblico adeguati, che ha bisogno d’informazioni e supporti di assistenza adeguati e strutture ricettive idonee alle più disparate esigenze.
2) Oppure porsi nei panni di chi, questo tipo di risposte, deve, prima o poi, offrirle in termini reali e tangibili, ma per questo motivo deve avere la possibilità di effettuare con una certa lungimiranza investimenti adeguati, disporre di una mano d’opera preparata, non essere oberato da diseconomie che rendono fin dall’inizio perdente qualsiasi iniziativa.
In fondo si tratta delle due facce della stessa medaglia: la convergenza di domanda ed offerta, sia in termini quantitativi, e cioè delle risorse finanziarie, del numero delle presenze, del numero dei posti letto, e via discorrendo, ma anche in termini qualitativi, relativi alla qualità della risorsa turistica Sardegna, considerata la grandissima competizione esistente sul mercato che, soprattutto in questo settore, è ormai assolutamente globalizzata. Accade spesso che le due facce non combacino opportunamente, ed allora può accadere che possa esservi un’alta qualità del bene ambientale offerto, ed una insufficiente quantità dal lato dei servizi; oppure una dotazione di mezzi e infrastrutture sufficienti, od anche maggiore delle necessità, ed una qualità insufficiente delle risorse paesaggistiche messe a disposizione. È fuor di dubbio che occorra comunque e sempre una adeguata programmazione degli interventi e delle risorse messe a disposizione del mercato per poter disporre di un sistema equilibrato e messo in condizioni di crescere omogeneamente.
Per ottenere questo è però necessaria una strategia complessiva. Esiste l’esigenza di un piano diverso da quelli finora conosciuti, nei quali si è sostanzialmente parlato di urbanistica, mentre sarebbero stati completamente trascurati tutti gli altri aspetti del sistema turistico.
Per esempio l’ambiente: il piano turistico deve essere soprattutto un piano di servizi, che rappresentano il vero valore aggiunto. Le cose da fare si devono basare su tre linee fondamentali: le infrastrutture, le sinergie fra tutti i soggetti interessati (dagli amministratori locali agli operatori), la formazione motivata anche da parte della pubblica amministrazione al fine di creare una struttura burocratica, a tutti i livelli, che sia in grado di recepire e di dare risposte efficaci e rapide alle istanze del mercato.
L’idea di fondo è la realizzazione di un “parco residenziale d’Europa” facendo assegnamento sulle eccellenze della regione e, pertanto, sul patrimonio paesaggistico, su quello culturale, sul clima. Creare in contemporanea uno strumento di guida che tracci e fissi i limiti per la salvaguardia dell’ambiente, il risanamento delle aree minerarie e industriali dismesse, la preservazione e la tutela dell’isola da interventi di mera speculazione immobiliare. Uno snodo di grande importanza è il miglioramento delle “porte d’accesso” all’isola: si tratta dei sistemi logistici di Cagliari, Alghero, Porto Torres, Olbia, Nuoro e Oristano, le quali vengono individuate quali cerniere di sviluppo delle aree interne.
Ma nessun piano turistico può dimenticare il fattore umano ed in particolare la cultura, la ricchezza sociale dei territori interessati. In questo senso si dovrà cercare una stretta connessione con il tessuto urbano circostante, attraverso iniziative diffuse su tutto il territorio interessato, al fine di ottenere una perfetta integrazione con il sistema produttivo nel territorio di riferimento. Un capitolo di rilievo investe la formazione, considerata un caposaldo dell’intero sistema. Una formazione sia degli operatori e degli attori del comparto, ma anche dei soggetti che a vario titolo operano nell’amministrazione pubblica. Tutti “personaggi” specificatamente orientati positivamente alla buona riuscita di un progetto che coinvolge l’intera Sardegna, nei suoi sottosistemi economico, sociale e culturale.
Se l’avventura dell’industrializzazione, pur nei suoi esiti non sempre felici, diede comunque un contributo di grande rilievo alla trasformazione della Sardegna nel senso della modernità, un contributo di peso sicuramente non minore venne a questo processo dall’improvviso esplodere e poi dall’impetuoso espandersi del turismo e di quanto a esso era in qualche modo connesso: paesini minuscoli, e quasi sempre poveri, di pescatori e di contadini che nel volgere di pochi anni si dilatavano e mutavano aspetto per il sorgere in seno e intorno a essi d’un crescere fitto e spesso confuso di case, ville, alberghi; tratti di costa per secoli deserti, spiagge, dune e scogliere, sui quali costruzioni nuovissime, raramente belle, nella maggior parte non destinate a figurare come esempi ragguardevoli nei testi d’architettura, prendevano di prepotenza il posto dei cisti e dei lentischi, degli asfodeli e dei gigli selvatici.
Ma non cambiava soltanto l’aspetto dei luoghi: cambiavano, e non in misura minore, il modo di vivere, le aspettative, i modi di pensare della rada società che quei luoghi popolava. Se i vecchi sedevano sull’uscio di casa a godersi il tenue benessere che, inatteso, era venuto a beneficiarli, e guardavano vagamente stupiti quel che accadeva intorno a loro, i più giovani non esitavano a tuffarsi nel calderone della nuova economia turistica cercando di ricavarne, così come potevano, qualche profitto. Cambiava tutto: nuove prospettive, nuova disponibilità di denaro, nuove esperienze, nuove ambizioni, il contatto con un mondo ignoto. L’avvento dell’età turistica, dapprima sommerso e poi clamoroso, risale agli anni intorno al 1960, allo stesso momento, dunque, in cui Rovelli approdava a quest’isola per farne la sede del suo impero petrolchimico. In quel momento accadeva che più d’uno scoprisse che il mare e le coste della Sardegna erano fra i più belli del Mediterraneo: belli abbastanza, in ogni caso, e abbastanza ricchi di suggestioni, perché, se sottoposti al trattamento che viene usualmente definito valorizzazione turistica, potessero facilmente diventare fonte di ricchezza. La struttura dell’operazione era, tutto sommato, molto semplice. Consisteva, infatti, nell’acquisto di terreni, poco importava se sterili, meglio se rocciosi, purché si affacciassero su un bel tratto di costa, e dei quali i proprietari, il più delle volte contadini poveri, erano ben lieti di disfarsi se il prezzo era appena conveniente. Quei terreni, poi debitamente lottizzati (per ricorrere al lessico delle imprese immobiliari), sarebbero divenuti aree fabbricabili il cui valore si sarebbe centuplicato. Per più d’un verso, dunque, la valorizzazione turistica si identificava con l’ordinaria speculazione immobiliare.
Il caso più illustre, e il più fortunato, fu quello della Costa Smeralda, che non soltanto si trascinò appresso buona parte degli altri, ma consacrò la Sardegna ai fasti del turismo, facendone uno dei luoghi privilegiati. Sta di fatto che la sua nascita, il suo dilatarsi e il suo rapido insediarsi ai livelli più alti del prestigio mondano ebbero un ruolo di grande rilievo nella trasformazione della Sardegna.
Qui, per ricordare in qual modo nacque la Costa Smeralda, ci si atterrà alla versione che di quell’evento offre la mitologia più accreditata. All’origine di tutto vi fu, pare, un ricco signore, forse l’industriale Mentasti (acque minerali, bibite e altro ancora), il quale navigando sul suo splendido yacht lungo l’estremo lembo nord-orientale della Sardegna, rimase incantato dalla trasparenza e dai colori del mare e dalla straordinaria bellezza della costa. Della sua scoperta parlò ad alcuni amici, tutti con lui lontanissimi dall’indigenza, e fra tutti, poiché nessuno di loro era incline alla disinteressata contemplazione, decisero che quei luoghi sarebbero diventati un centro turistico fra i più grandi e raffinati non dell’Italia soltanto, ma dell’intero Mediterraneo. Poiché si trattava, nella sostanza, di una grande operazione immobiliare intesa a far sorgere poco meno che una città votata al turismo e alla mondanità, fu costituito un consorzio del quale divenne presidente un personaggio famoso e ricchissimo, il principe Karim Aga Khan; fu inventato per quei luoghi un nome facile e suggestivo, Costa Smeralda, e vennero definiti i confini del futuro dominio del consorzio. Fino a quei giorni quella zona, tutta pendii ispidi di cisti e di lentischi e rocce di graniti che digradavano verso il mare e le sue meraviglie, in tutto alcune migliaia di ettari, s’era chiamata Monti di Mola ed era stata popolata da poche decine di famiglie sparse in radi stazzi solitari, complessivamente non più di 300 abitanti. A loro apparteneva la terra: perché potesse nascere la Costa Smeralda era necessario comprarla. Così ebbe inizio una sorta di convulsa corsa al granito.
Gli emissari dell’Aga Khan e dei suoi soci e folte schiere di alacri mediatori di ventura presero a perlustrare i terreni che, secondo i progetti, avrebbero fatto parte della Costa Smeralda; di ciascun appezzamento individuavano il proprietario e con lui ne trattavano l’acquisto. Di norma non avevano difficoltà a concludere, poiché era terra appena in grado di assicurare il pascolo alle capre, e a un contadino povero, a un pastore non ricco, qualunque prezzo sarebbe parso vantaggioso. A comprare non erano solo ricchi signori del consorzio, ma anche una folla di spregiudicati mediatori che si assicuravano il possesso di un pezzo di terra per rivenderlo, a prezzo maggiorato, alla nascente Costa Smeralda. In quei giorni da quelle parti il denaro scorreva, se non proprio a fiumi, in flussi consistenti, benché distribuiti in modo diseguale, poiché a beneficiarne erano i mediatori di varia estrazione. Coloro i quali avevano venduto la loro terra ottennero una manciata di milioni che si affrettarono a depositare in banca (qualche vecchio contadino giunse davanti allo sportello con un involto pieno di biglietti di banca che doveva farsi aiutare a contare) o ad investire nell’acquisto d’una casa ad Arzachena o ad Olbia e d’una macchina. Il solo a respingere per lungo tempo tutte le offerte fu un anziano pastore, che possedeva una vasta estensione di terra, 300 ettari di rocce e di cespugli, che si incuneava nell’area della Costa Smeralda. Gli furono offerti 1080milioni di lire: avrebbe venduto, rispose, soltanto per 2 miliardi. Resistette a lungo: cedette soltanto quando gli furono offerti 1620milioni, 540 milioni più del prezzo che gli era stato proposto inizialmente. Ma la nascita e l’espansione della Costa, che è vicenda che tutti conoscono, e della quale nessuno ignora i fastosi aspetti mondani, non ebbe come conseguenza soltanto il mutamento dei luoghi e della condizione economica dei 300 antichi abitanti di Monti di Mola. Comportò, invece, il costituirsi, fra Olbia e Arzachena, d’una nuova classe sociale: imprenditori edili, commercianti di materiali per l’edilizia e di quanto era necessario per costruire e arredare case, ville, alberghi, gestori di ristoranti e di locali variamente destinati agli svaghi serali, di negozi di diversa vocazione merceologica, di attività in qualche modo connesse al turismo.
Massimiliano Perlato