Dalla passione per il creare moda a quella per la scrittura in grado di raccontare storia, usi, costumi ed aneddoti. Fabrizio Casu, saggista sassarese in questi ultimi mesi impegnato con la presentazione del suo ultimo lavoro, “Il lungo viaggio di una chemise”, ha portato sul versante della scrittura quella urgenza biografica che riguarda il mondo della moda e che, nel corso degli anni l’ha portato a studiarla, farla sua, portarla in scena.
Così, si scopre che dietro un capo semplicissimo quale la chemise, si costruisce una storia di donne, società e nascita di una sorta di proto femminismo ante litteram. L’uso della tunica, lanciato da Maria Antonietta che la indossa per farsi ritrarre da Vigée Lebrun, diventa in breve tempo sinonimo di libertà, non solo dai pesanti e rigorosi capi dell’epoca ma, anche da una serie di convenzioni sociali, promuovendo la simbiosi tra corpo e abito. In una serie di curiosità e aneddoti storici che contribuiscono anche a dare un’identità nuova alla regina francese, l’opera crea un racconto corale al femminile dove a far da filo conduttore è la stessa trama dell’abito. Dalla regina alle “Meravigliose” e alle loro feste “a la victim”, attraversando i decenni, attraverso il ritorno costante nella pittura, soprattutto della Lebrun, pittrice di una nuova idea di modernità tutta al femminile. Nato a Sassari, Fabrizio vola a Milano per laurearsi alla NABA come “esperto e creativo del settore moda”. Docente di storia del costume e progettazione moda in scuole pubbliche e private di Sassari, ha organizzato due mostre personali, “Sardinian Gothic” e “Dialogo Alternativo fra Arte e Moda” ed ha partecipato nel 2011 alla Biennale Sardegna, iniziativa promossa da Padiglione Italia alla 54esima esposizione internazionale d’arte della Biennale di Venezia. Nel maggio 2013 ha pubblicato due saggi per la casa editrice EDES: “Novecento: il secolo della moda” e “Madonna, vampira postmoderna”.
Da dove nasce la passione per la moda?
Dall’esigenza di studiare l’uomo ed i suoi comportamenti, di comunicare artisticamente il mio universo interiore e di cambiare il mondo attraverso la comunicazione estetica di ideologie progressiste. Del resto, anche se spesso si tende a dimenticarlo, la moda è un sistema di comunicazione potentissimo prima ancora che un sistema produttivo di tipo capitalistico-industriale.
Chi sono stati i tuoi esempi d'ispirazione?
I miei modelli di riferimento sono stati molteplici e legati alle diverse fasi della mia vita: da adolescente ero innamorato di Gianni Versace, Thierry Mugler e Jean Paul Gaultier per la loro teatralità eversiva e per la loro valorizzazione “feroce” della fisicità; poi, in un periodo di approfondimento culturale, mi hanno affascinato Vivienne Westwood e John Galliano per la loro ricerca archeologica a livello sartoriale; infine, in un momento di crescita umana e professionale, sono arrivati i minimalisti giapponesi (Issey Miyake, Comme des Garçons, Yohji Yamamoto) che mi hanno insegnato cosa significa nella moda il motto “less is more”, ovvero la capacità di arrivare all’essenza coniugando sperimentazione, rigore e poesia.
Cosa ha ispirato la tua prima collezione? Vogliamo raccontarla?
Fu un progetto accademico a tema libero: decisi d’ispirarmi al cinema di Pedro Almodovar e cercai di trasferire nei miei schizzi il fascino della movida madrilena cui i suoi film fanno sempre riferimento. Colori brillanti e saturi con predominanza di rosso primario, stampe art deco mischiate a texture pop e optical (oltre che mutuate dai famosi azulejos spagnoli), tagli audaci, silhouette fascianti e ridottissime, ma soprattutto abuso di feticci (calze a rete, tacchi a spillo) che diventavano parte integrante degli indumenti. Ricordo che, pur essendo una collezione femminile, avevo disegnato tutti i figurini con fattezze iper-viriloidi: mi piaceva l’idea di un fiero transgenderismo come manifesto ideologico (oltre che estetico) di liberazione dai ruoli convenzionali e dalla dicotomia sessuale.
Come mai ha deciso di non proseguire la carriera di stilista?
Ad un certo punto mi sono reso conto che, se volevo fare lo stilista, non potevo prescindere dalla moda come sistema. Reputo il fashion system un mondo assolutamente conservatore: ha ragione chi fa la voce più grossa e, giusto per citare Tommasi di Lampedusa, in questo Regno dell’ Estetica “cambia tutto per non cambiare niente”. Ho deciso di chiamarmene fuori, brancolando nel buio per qualche anno. Poi è arrivata l’illuminazione, ovvero la cognizione che potevo utilizzare la parola come nuovo mezzo espressivo ed estetico!
Ho scoperto che le parole possono vestire e svestire un corpo quanto un abito, che un abito è solo il surrogato di un concetto e che attraverso le parole posso far “sfilare” le mie idee e farle arrivare agli altri, forse anche in maniera più immediata che attraverso gli abiti. Quella che sembrava essere stata una cocente sconfitta si è trasformata perciò in un’ insperata opportunità di riscatto e, fondendo insieme le mie passioni (moda, microstoria, arte, sociologia, filosofia, psicologia e letteratura) … mi sono re-inventato come saggista. Non escludo tuttavia di poter tornare un domani all’ambito creativo.
Parliamo del suo ultimo saggio che parte dall'amore per le vicende di Marie Antoinette. La storia della chemise è, in fondo, la storia di un'epoca e delle sue trasformazioni.
La chemise è un indumento fortemente evocativo che viene a contatto con un’infinità di istanze culturali e se ne fa portavoce; in un contesto di rapida trasformazione essa riassume infatti il passaggio dalla civiltà aristocratica al mondo borghese, la passione per l’Antico, la fuga nell’Esotismo, la nascita della pedagogia, l’esplosione del Sentimento e dell’Individualità, il ritorno dell’igiene, l’affermazione della libertà di pensiero e di espressione, la codificazione del concetto di privacy ed infine la tendenza all’informalità e alla familiarità come presupposti della futura democrazia sociale.
Nel suo saggio avanza anche un’ interessante teoria, quella di un proto femminismo derivante dall'uso e dalla diffusione della chemise.
Diciamo piuttosto che il Settecento viene definito da molta storiografia moderna come “il secolo della femminilità” poiché le donne, lungi dal rivendicare attivamente i propri diritti come faranno invece le suffragette o le femministe nel XX secolo, si appropriano tuttavia di quelli spazi politici, sociali, professionali, culturali e artistici lasciati “incustoditi” dagli uomini e conquistano in questo modo fette sempre maggiori di autonomia personale.
L’abito che maggiormente rappresenta questa “inconsapevole emancipazione” è proprio la chemise, così semplice e sciolta: tale indumento infatti affranca il corpo femminile dalle strutture interne (corsetti e panier), ripristina una simbiosi fra corpo ed abito, ma soprattutto regala al corpo femminile un’inedita libertà di movimento (finalmente le donne non sono più costrette a ricorrere ad una cameriera per svestirsi o a varcare una porta camminando di lato).
Ha già trovato l'ispirazione per il prossimo saggio?
Si, avrà a che fare con la Belle Epoque, periodo di transizione, denso di contraddizioni. Sono già in una fase di ricerca, ma sto cercando di capire che taglio dare all’opera per rendere moderno ed accattivante il soggetto.