Raccontare la Sardegna nelle sue bellezze, con positività e ottimismo verso il futuro. E farne una missione di vita. In Sardegna ci vorrebbero più persone così, con quell’intuito che porta a promuovere con brillante innovazione e leggerezza.
Simone Riggio è una di queste: un vulcano di idee, difficilmente incasellabile in una sola professione.
“Sono una persona che ha la necessità di creare e che ha trasformato la sua vita in un grande gioco, realizzando un sogno”, ci dice quando gli chiediamo di presentarsi.
Cultore delle tradizioni e grafico, editore e sviluppatore di giochi da tavolo, scrittore e osservatore delle dinamiche di un mondo in trasformazione, che però, oggi più che mai, necessita di ancora e di una nuova stabilità.
Questa àncora Simone la cerca in Sardegna, nella sua storia e nelle sue tradizioni, impossibili da sradicare. Ed è nella sua Santu Lussurgiu, dove ancora si combattono silenziosamente i postumi del drammatico incendio dell’agosto 2021, che lui crea e costruisce, intesse relazioni e promuove idee, guardando sempre con sguardo positivo a quello che verrà.
Lo incontriamo a ridosso delle festività natalizie: è un momento delicato e particolare in cui la sua casa diventa un centro di smistamento per le spedizioni. La società di cui è presidente, la Demoela, produce tra i più apprezzati giochi da tavolo in Italia e, anche grazie alla riscoperta di una socialità necessaria e attesa, la domanda è aumentata. Sulla sua scrivania ci sono gli ordini da evadere e quelli da monitorare, le nuove idee da verificare e sviluppare, i numeri di Antas, il periodico culturale di cui è grafico e mente attiva della prima ora.
Nel week end precedente alla nostra chiacchierata in paese c’è stato il primo vero evento in presenza. È stato un nuovo ritorno a una forma di normalità che apre una porta su quello che verrà e che, in parte, Simone Riggio aveva iniziato a immaginare. La nostra chiacchierata si intreccia, infatti, a un progetto breve e dirompente del 2012 e durerà oltre un’ora, tra aneddoti e pensieri, progetti e dinamiche da sviluppare con una speranza: non smettere mai di rendere viva la tradizione e la forza comunicativa della Sardegna e farlo raccontando storie e dettagli positivi, fatti di bellezza e risate.
E sappiamo quanto, oggi, ce ne sia bisogno.
Buona lettura!
Nel momento della nostra intervista Santu Lussurgiu, tuo luogo di vita, passioni e lavoro, aggiunge al calendario la riuscita di un evento importante, il primo dopo le restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria. Com’è andata?
Santu Lussurgiu ha pagato un prezzo molto alto per la pandemia, anche in termini di morti Covid. L’evento dello scorso fine settimana è stato emblematico del periodo che stiamo vivendo: sabato mattina si celebrava un funerale, con tutto il dolore di chi non aveva potuto nemmeno vedere la persona cara causa restrizioni; nel pomeriggio si aprivano gli stand, ci si preparava a festeggiare. C’è il mondo che va avanti e c’è il dolore. La sintesi di questo nuovo tempo.
Come, secondo te, la pandemia ha cambiato la quotidianità delle piccole comunità sarde?
Nel mondo agropastorale, quello che sento più vicino, non è cambiato quasi nulla: la campagna segna i ritmi della giornata così come accade per i piccoli artigiani nella loro bottega.
Sono cambiati, però, i rapporti umani.
Faccio l’esempio di Santu Lussurgiu, un paese che oggi conta appena 2400 abitanti anche se nel demografico del 1901 figurava tra i più grandi della Sardegna. Un paese con due bar, pochissimi per la media sarda, perché le persone si vedono nei magazzini e nelle cantine dove si fanno vino e acquavite.
Questa abitudine porta al perpetuarsi di tradizioni: si canta a concordu, si raccontano storie e aneddoti. La pandemia ha stravolto tutto questo, rendendo i rapporti tra le persone dei paesi più aspri e complicati. Chi avrebbe mai pensato che sarebbe stato vietato fare una cosa così naturale come cantare in piazza!
Santu Lussurgiu paese di tradizioni, forti e fragili allo stesso tempo. Temi che la pandemia, le restrizioni, l’impossibilità di celebrarle a dovere siano elementi di minaccia per le tradizioni, che le facciano scomparire?
Se sono tradizioni legate al saper fare non credo sia possibile vadano perse, quelle sono inattaccabili.
Certo, bisogna considerare il rischio economico, la presenza di mercati più digitali che fisici ma non è una situazione che ne possa pregiudicare la continuità.
Lo stesso riguarda le tradizioni di comunità. Ho cantato a concordu dal 2006 e fino a tre anni fa in uno dei cori di Santu Lussurgiu e so quanto sia forte la passione che anima chi canta, quella che porta anche i giovanissimi a provare nelle situazioni più impensabili.
Basta un incontro in una cantina e il rito si rinnova.
La mia paura è un’altra: quella che l’uomo abbia assorbito con questa pandemia una paura, una diffidenza verso i suoi simili e che possa metterci un po’ di tempo a recuperare quella semplicità che c’era prima.
Ricordo, però, la teoria di un noto etnomusicologo il quale asseriva che, paradossalmente, dove c’è molta invidia legata anche alla gelosia delle proprie tradizioni queste difficilmente si perdono. Se non ci fossero gelosia, campanilismo, invidia non si creerebbe quell’attenzione che ha alla base la necessità che le mie cose vengano sempre prima delle altre.
Diventa, così, una questione di orgoglio. Finché ci sarà qualcuno a difenderle, le tradizioni non moriranno. Non finché sono in vita io, almeno!
Santu Lussurgiu porta ancora i segni del devastante incendio che ha colpito il Montiferru nel 2021. Che cosa è rimasto e che cosa si sta superando di quel momento?
È stata una delle cose umanamente e psicologicamente più devastanti di sempre, soprattutto perché ci ha presi in un momento di fragilità.
Ci siamo riprendendo come si sta riprendendo la natura: il monte intorno a noi è sempre nero e, pian piano, riappare un po’ di verde. Sappiamo che ci vorrà molto tempo ma è stato come toglierci l’ossigeno.
Non respiriamo più come prima perché l’aria è cambiata, manca la metà degli alberi ed è venuta a mancare anche la consuetudine della passeggiata domenicale nei nostri boschi.
Quando piove abbiamo paura, perché piove fango e perché il rischio frane, senza alberi a sostenere, è aumentato. Ci ripetiamo che tutto passa, anche questo pugno in pancia che ci fa piangere ogni volta che ci pensiamo. Abbiamo combattuto con tutte le nostre forze, sfidando il fuoco per salvare il salvabile e ricevendo la grazia di non aver avuto morti. Tanta devastazione, però, ci ha resi impotenti e vedere i nostri luoghi in apertura dei tg nazionali rendeva il dolore ancora più grande, nonostante la grande solidarietà e vicinanza che abbiamo ricevuto.
Nel 2012 hai lanciato un blog, Sardegna2048 dove immaginavi, attraverso vere e proprie cronache dal futuro, la nostra isola e le sue trasformazioni. Tra i tanti eventi narrati dove la pandemia – per fortuna - non compariva, c’erano, varie situazioni curiose e interessanti di un domani possibile. Quale hai sempre sperato che si avverasse?
Se avessi parlato di pandemia su Sardegna2048 avrei generato il panico!
Personalmente tendo a scrivere e immaginare le cose belle ed essere positivo, anche nella fantasia. Questa ricerca della positività è stata alla base dell’idea, un progetto di quasi dieci anni fa, nato per scherzo ed esauritosi in due mesi perché era diventato ingestibile.
L’articolo che mi è rimasto dentro era quello dove immaginavo che la Sardegna avesse sostituito tutti i fast food sulle vie di percorrenza con luoghi dove assaggiare le produzioni tipiche. Il nome era “Tavola Sarda” e l’idea nasceva dal mio desiderio di trovare anche da noi un corrispettivo di quei ristoranti che caratterizzano le strade più trafficate della Toscana e dell’Emilia, dove puoi fermarti e fare un viaggio nei loro sapori.
Mi sono sempre chiesto perché sulla nostra 131 non ci si possa fermare a mangiare un po’ di pane e formaggio, assaggiare un pezzo di salsiccia invece di far benzina e prendere un prodotto industriale e confezionato fuori dall’isola.
Quello della “Tavola Sarda” rimane uno dei miei desideri più grandi perché la Sardegna è fatta di persone che lavorano la campagna e la trasformano in cibo e in beni che meritano di essere conosciuti e apprezzati perché no, anche con un aperitivo che invece di Spritz e patatine preveda vernaccia e amaretti, pane e casizolu.
Questo articolo, dove i fast food lasciavano il posto alle tavole sarde totalizzò 28mila visite in due giorni, un successo incredibile.
Come mai, con un interesse così forte verso i contenuti del blog, hai deciso di interrompere le pubblicazioni?
Ho smesso quando mi sono reso conto che nonostante fosse chiaro e ben esplicitato che si trattava di invenzioni, in tanti le ritenevano reali.
Il culmine è stato quando ho iniziato a ricevere i CV per lavorare nelle “Tavole Sarde” e i lavori artistici a seguito di un articolo dove si parlava di vecchie tastiere Apple trasformate in opere d’arte.
Ricevetti addirittura una segnalazione dall’Ordine dei Giornalisti che mi invitò a smettere di scrivere.
In un primo momento rimasi nella parte, dicendo che, in fondo, raccontavo verità dal momento che lo facevo dal futuro. Poi, quando ho capito che chi leggeva lo faceva con la convinzione che fossero articoli reali, ho smesso. Non me la sono sentita di prendere in giro perchè anche se era chiaro fosse uno scherzo chi non leggeva fino in fondo, chi si limitava ai titoli, percepiva gli articoli come veri. Ricordo che una mattina, a Santu Lussurgiu, sentì alcuni commentare il blog immaginando chissà quale macchinazione politica! Di fatto, quei contenuti avevano fatto molto rumore: Liberos, con Michela Murgia, li ripostava proponendoli come momenti di riflessione, sono stato intervistato da radio e tv… insomma, tutti ne parlavano!
È stata un’esperienza bellissima, un momento di successo della mia vita che mi tengo stretto e, per questo, ho deciso di lasciare il sito on line per ricordare queste idee che riflettono la mia passione per la scrittura e le storie da inventare ma, anche, alcuni miei desideri per la Sardegna che vorrei.
Nel frattempo le passioni per la scrittura e le tradizioni hanno incontrato una rotta comune, quella dei giochi da tavolo. Tancas, un Monopoly in versione sarda è il primo dei giochi Demoela dedicati alla Sardegna e porta la tua firma. Qual è stato il suo percorso?
Nel 2016 quando ho avuto la fortuna di incontrare uno dei tre fondatori di quella che oggi è la Demoela che, all’epoca, era un progetto legato a un gioco su un episodio storico genovese, Zena 1814.
Iniziai con alcune grafiche e venne subito fuori la mia passione per i giochi da tavolo che coltivo sin da bambino, quando trasformavo le costruzioni Lego in altri giochi con regole e logiche che condividevo con i miei amici.
Accettai di entrare in Demoela a una condizione: volevo che i giochi realizzati insieme potessero raccontare il nostro territorio. Siamo così partiti da un best seller, Palanche, un Monopoly genovese e abbiamo creato Tancas.
Il nome Tancas mi è stato suggerito da una persona che lavorava nel corsorzio del Pecorino Romano alla quale chiedevo se volesse sponsorizzare il gioco che, allora, si chiamava Sardinia.
“Chiamalo Tancas, visto che metti in vendita le proprietà”, mi disse. Pensa: anni a cantare “Tancas serradasa a muru…” e non ci avevo pensato!
È stato un successo: ad oggi abbiamo venduto 6mila scatole. Significa che migliaia di sardi hanno girato la Sardegna attraverso le caselle del nostro gioco.
Che poi, pensiamoci. La prima versione italiana del Monopoly è arrivata durante il fascismo per poi sostituire le vie del ventennio a quelle di Milano. Curioso ricordare che tutti noi siamo diventati ricchi almeno una volta comprando o ipotecando casa nel capoluogo lombardo.
Ecco, io mi appigliavo a questo quando presentavo il gioco: investire nelle case e vie del tuo paese è una grande soddisfazione e, anche, una spinta verso il futuro.
Tancas ha fatto da apripista di un gioco legato a una consuetudine tutta sarda, quella degli spuntini. Da che premesse sei partito per avviare la realizzazione e far decidere con un tiro di dadi se assaggiare prima il casu marzu o la pecora in cappotto ?
Se per Tancas il riferimento era il Monopoly per Spuntino non esisteva nessuna controparte: è stato un azzardo editoriale perché mi sono inventato un gioco. Di solito è più facile rimanere sulla scia di un gioco conosciuto perché è più facile vendere proporre qualcosa con regole già note.
C’era, però, un forte punto di partenza: grazie all’attività con associazioni culturali e sportive sono uno dei più grandi esperti nel settore degli spuntini!
Lo spuntino è la prosecuzione fisica e umana di quello che si fa in Sardegna quando due o più persone si incontrano. Non è quello definito dal vocabolario italiano ma, secondo me, l’atto di ospitalità più grande che si possa fare sia esso organizzato da un gruppo che da una singola persona, come ringraziamento o prosecuzione di una tradizione.
Ne ho parlato al Modena Play, la più grande manifestazione dedicata ai giochi da tavolo e, dopo lo shock iniziale a sentir nominare formaggio con i vermi, maialetto arrosto e dintorni, ho notato che c’era una grande curiosità. Ecco, allora, un gioco dove vince chi partecipa a più spuntini!
Spuntino è andato a ruba e stiamo preparando la seconda edizione che, su richiesta del mercato, sarà anche in inglese e tedesco per portare la tipicità delle nostre cose, dalla ziminada alla resolza in contesti internazionali.
Dopo Spuntino abbiamo fatto una traslazione di un gioco famoso, Risiko e creato Sgrunt dove i cinghiali si sfidano per riconquistare i territori storici della Sardegna. Abbiamo immaginato un mondo dove, cito dal libretto di istruzioni, "l’uomo si è estinto per stupidità” e i cinghiali, umanizzati, hanno ripreso gli spazi lasciati dagli umani.
Sgrunt è stato lanciato nel 2019 ed è curioso pensare che, durante la pandemia, si sia assistito a questo recupero dei contesti urbani da parte degli animali, cinghiali compresi!
Di fatto, si tratta di operazioni di marketing territoriale portate su un tavolo da gioco.
Proprio così: alla base dei nostri progetti c’è il discorso della territorialità.
Per me è fondamentale far conoscere il più possibile quello che siamo, che viviamo e che abbiamo di bello.
Così, ogni volta che si crea un gioco nuovo si pensa a quale territorio, aspetto culturale e particolarità della nostra terra si possa raccontare. E la Sardegna è una fucina incredibile di storie e dove non si finisce mai di trovare degli spunti. Nuraghi, giganti, luoghi magici e tradizioni possono diventare giochi da tavolo andando sempre a valutare il contesto di mercato perché non bisogna solo esser bravi a fare i giochi ma anche a venderli e mantenere un alto livello logistico e di assistenza al cliente.
Il mio entusiasmo, infatti, si concretizza quando ho venduto anche l’ultima scatola e so che dall'altra parte ci sono giocatori felici.
Come nasce un gioco da tavolo?
Se si parte da un meccanismo già noto, come Tancas, è una questione di storia che si vuole raccontare, intorno alla quale ruota la particolarità del gioco. Se invece un gioco nasce da zero, come Spuntino, serve almeno un anno e mezzo di play test per verificare non ci siano insidie o momenti di blocco. I test prima della messa in vendita sono tantissimi e richiedono molto tempo da parte di chi svolge quello che è un lavoro – retribuito – a tutti gli effetti. Le regole devono funzionare alla perfezione, le istruzioni devono essere chiare e senza errori. Se con un videogame pui inviare l’aggiornamento, nel caso di un gioco da tavolo rischi di dover buttare via una scatola. Ecco, dietro un gioco ci sono creatività e passione, ovviamente, ma, ancora di più ci sono analisi e studio continuo che permettono di badare a tutti quei particolari narrativi che lo rendono unico.
Sulla tua scrivania ci sono i giochi ma c’è, anche, Antas, la rivista di cui fai parte sin dal momento della fondazione. In che modo parla di te?
Io e Antas siamo legati dal 2014 quando con Pierpaolo Fadda abbiamo riacceso la fiamma che aveva portato alla creazione di Sonos & Contos. È stata ed è ancora una esperienza fortissima che oggi continua con Alessandra Ghiani. Ogni volta che andiamo a impaginare Antas ritornano tutti quei concetti di cui abbiamo parlato e che parlano di me, di quello che sono e del mio obiettivo di vita: promuovere la Sardegna nelle sue cose belle. Antas fa questo, racconta bellezza e continua a farlo ancora, all’alba del 30esimo numero, festeggiando un piccolo record perché nonostante il momento difficile per l’editoria, senza finanziamenti, continuiamo ad uscire e ad accogliere riscontri positivi da parte di chi crede che certe cose debbano esistere perché danno valore alla nostra terra e a quello che siamo.
La cultura, le tradizioni, l’amore per la storia, ci salveranno dallo spopolamento?
La cultura dovrebbe essere parte dell’educazione scolastica dei nostri figli che dovrebbero trovare sui loro libri la storia dei nuraghi, la storia della Sardegna. Ho scelto di vivere e far nascere qui i miei figli, nel posto più bello che il babbo potesse dargli dove, però, i miei coetanei hanno come speranza che i figli vadano via.
Perché? Perché non possiamo fare qualcosa affinché chi vive qua non possa avere le stesse possibilità di chi nasce a Roma o a Milano? Perché tendiamo a vergognarci di quello che è nostro, a desiderare di vivere qui una vita che ha a che fare con il diverso ma non ci appartiene? È importante ripartire da noi, da quello che siamo e, se vogliamo combattere lo spopolamento investendo su chi c’è, facendolo vivere bene e pieno di orgoglio per il fatto di vivere qui.
Se non adesso… almeno nel 2048!
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