Fede e folclore si sono intrecciati nel mio “ultimo” 1° maggio a Cagliari, che oramai risale a qualche lustro fa, per la sagra di Sant’Efisio.
Cinquanta, forse 100mila turisti provenienti da tutta la Sardegna si erano dati appuntamento nelle ampie strade cittadine del capoluogo per salutare il Santo.
E così che Cagliari riscopre ogni anno le sue corde più intime e segrete, facendosi invadere da suoni e colori fatati.
La folla che si accalca in un religioso silenzio su una assolata (dal punto di vista meteorologico) via Roma, compreso il sottoscritto, ascolta ed osserva con suggestione l’antico rumore dei carri e degli zoccoli dei cavalli sul selciato.
C’è qualcosa d’incantato nel suono delle launeddas, strumento a fiato composto da tre canne, vecchio di tremila anni. Il lungo corteo, che attraversa le principali strade del centro storico cagliaritano fin dalle prime ore del giorno, viene aperto dalle “traccas”, vero simbolo della festa.
Sono carri trainati dai buoi addobbati a festa; alcuni dei carri a ruota piena, usati fino agli anni Cinquanta per i lavori agricoli e come mezzi di trasporto, provengono da diversi centri dell’isola. Sfilano uno dietro l’altro con coperte tessute a mano, tappeti, fiori, prodotti della terra, utensili della vita contadina: sono una sorta di museo su ruote della civiltà agropastorale della Sardegna. Sono questi carri a dare alla manifestazione il sapore della campagna. A precedere il Santo, nella mattinata di Cagliari, c’è un’imponente rappresentanza di gran parte dei comuni dell’isola che si riversano sulle strade colorate a festa con i loro costumi provenienti da ogni angolo delle quattro province, per sottolineare la devozione e l’omaggio delle genti isolane al Martire patrono.
Un mosaico irripetibile d’innumerevoli tinteggi che conferisce alla processione una valenza etnica e culturale senza confronti. Il gioco delle gonne, dei corsetti e degli scialli entusiasma i turisti armati all’inverosimile di macchine fotografiche e cineprese.
Tutta la storia della Sardegna è lì, il 1° maggio, nelle cuffiette rosse delle donne di Desulo, nei corpetti ricchi d’oro di Quartu Sant’Elena, nello scarlatto nuziale delle gonne, nei piedi scalzi dei pescatori di Cabras e, ancora, nell’eleganza dei colori dei vestiti di Orgosolo.
E così via, fra sommesse preghiere e invocazioni in coro, fra mille petali di fiore gettati sulle strade e fra la gente.
Figura centrale della festa di Sant’Efisio è l’Alter Nos. In origine rappresentava il Viceré. Assicura il perpetuarsi del voto fatto dalla Municipalità a Sant’Efisio nel 1656, quando Cagliari languiva sotto una terribile pestilenza. L’Alter Nos, bello e pulito a cavallo, porta al collo, sul frac, il “toson d’oro”, una onorificenza concessa a Cagliari da Carlo II, re di Spagna nel 1679: il medaglione, in oro massiccio, così come la catena che lo regge, porta da un lato l’effigie del re spagnolo e, sull’altro lato, lo stemma aragonese di Cagliari. Nell’attesa spasmodica del Santo, con la stanchezza che comincia a farsi sentire per la lunga attesa, a mezzogiorno in punto, al suono delle campane, sotto una pioggia di petali che vengono gettati dai balconi delle case di Stampace, il grande cocchio secentesco, dove è stato collocato Sant’Efisio, lascia la sua chiesetta e si incammina fra due ali di folla verso via Roma. È lì che l’attendiamo noi, gente venuta da fuori per assistere a bocca aperta all’esplosione di questa celebrazione ineguagliabile. La parte innanzi al Palazzo Civico è trasformata da “sa ramadura” in un tappeto colorato di petali di ogni colore.
Nel porto le navi presenti suonano le sirene, mentre la musica delle launeddas si fa sempre più penetrante. E dietro quel giogo di buoi, massiccio ed imponente, Sant’Efisio, inerme, si lascia inghiottire da una infinita moltitudine che chiede, almeno per un attimo, di poterlo toccare, di gettare ai suoi piedi una richiesta di grazia, di offrire un prezioso gioiello di famiglia.
Una vera festa del popolo ai piedi di quest’icona, col suo trono tempestato d’oro, che si mostra alla miriade di fedeli che fanno ala al suo lento procedere verso Nora. Quattro giorni durano le grandi solennità a Cagliari, toccando centri diversi come Sarroch, dopo c’è la sosta alla chiesetta di Giorgino. Poi a Villa San Pietro, con immagini simili a quelle di Cagliari, per giungere poi a Pula e chiudere infine a Nora, luogo del martirio del Santo.
Si torna a casa, e la gente per le strade che ti sussurra a “atrus annus”.
È così da anni.
Per sempre.