Giornalista Rai, originario della Basilicata arrivò in Sardegna grazie all’amore della sua famiglia per l’Isola. Un’affascinante storia di integrazione che ha connotato l’intera vicenda familiare di Olita e che viene riportata, come una cascata di ricordi nel suo romanzo," Il futuro sospeso". Ottavio Olita si è occupato dello studio delle comunità emigrate sin dagli anni Novanta quando realizzò un interessante studio legato al rapporto con i mezzi di comunicazione in occasione del Convegno F.A.S.I. Il nuraghe nel villaggio globale.
Come mai ha intrapreso le ricerche sulle comunità emigrate? E’ stata una conseguenza della sua vicenda familiare?
Il mio rapporto con l’emigrazione nasce nel 1992. Avevo scritto un libro sul fenomeno degli incendi in Sardegna e «Il Messaggero Sardo» ne aveva pubblicato una recensione. Era il primo libro che si occupava del problema in maniera organica: “Sardegna in fiamme. Prospettiva il deserto?”. La recensione venne letta dal primo nucleo con cui sono entrato in contatto, il circolo “Sardegna” di Como presieduto da Onorio Boi. Onorio, del quale sono diventato profondamente amico, mi chiese nel 1993 di presentare il libro al circolo. Da allora è cominciata la mia collaborazione che mi ha portato ad analizzare il nuovo ruolo dell’emigrazione sarda in Italia costruendo un rapporto molto consistente soprattutto con i sardi in Lombardia. Il mondo dell’emigrazione sarda rappresenta un cosmo a parte rispetto a quella italiana. Un livello straordinariamente diversificato.
Le comunità sarde sono infatti le più attive e longeve! Pur a distanza di cinquant’anni!
Hanno svolto un ruolo di traino rispetto a tutte le altre comunità. Hanno dato delle indicazioni di lavoro anche ad altre comunità di emigrati dello stesso territorio. Avevo contattato una comunità di emigrati calabresi in Australia e mi avevano confermato che l’organizzazione delle comunità sarde era completamente differente dalla loro.
Perché secondo Lei si è verificato questo?
Perché il ricordo identitario sardo è molto più forte rispetto a qualunque altra regione italiana. Il rapporto con le proprie cultura, lingua, tradizioni non è vissuto solo con nostalgia, come un tempo, ma si è trasformato in un processo culturale di straordinaria importanza. Gli emigrati si sentono realmente ambasciatori della Sardegna nel mondo e questa capacità di rappresentare la realtà sarda ovunque vadano a vivere fa davvero la differenza con le comunità degli altri emigrati. Hanno realmente una concreta capacità di analizzare la realtà sarda e di farsene rappresentanti. L’Ente Regione dovrebbe capire e valorizzare meglio questa potenzialità.
Invece l’attenzione delle istituzioni nei confronti dei circoli è ancora piuttosto labile. Anche l’informazione si preoccupa poco delle comunità emigrati. Negli anni Settanta c’era un grande interesse nei confronti degli emigrati, poi se n’è parlato solo in casi di disgrazie e/o manifestazioni eclatanti.
Secondo me il vizio è nell’origine del rapporto tra la Regione e il circolo. All’inizio il rapporto era visto solo come finanziamento a fondo perduto di iniziative di nostalgia, folclore, poesie ecc in cui gli emigrati che non riuscivano a integrarsi completamente nelle comunità in cui andavano a lavorare, si incontravano tra loro, ritrovando una propria dimensione. Nel momento in cui la situazione – economica e sociale – degli emigrati è cambiata, è anche mutata la loro capacità di analisi rispetto alla realtà di provenienza. Mentre la prima ondata non sognava altro che tornare in Sardegna, ai nuovi emigrati, consci dei disagi presenti nell’Isola, non interessa rientrare. Ma essi, con grandissima onestà, non vogliono assolutamente rinunciare alla funzione che possono svolgere a favore della Sardegna. Purtroppo questo non viene colto dalla Regione: a fronte del vecchio rapporto del finanziamento a fondo perduto si dovrebbe cercare di istituzionalizzare un diverso rapporto tra il mondo dell’emigrazione e la Regione. Finora c’è stata una prosecuzione dell’esistente ma non c’è un discorso di progettualità.
L’ultimo piano triennale punta molto sia all’informatizzazione che al coinvolgimento dei giovani. Mentre queste persone cercano in tutti i modi di valorizzare la Sardegna, la Sardegna non fa nulla per loro, nemmeno dal punto di vista dell’informazione.
La stampa locale non ha colto il cambiamento ed è mutato anche il lavoro all’interno delle redazioni. Nessuno viaggia più per andare in loco e studiare, analizzare le situazioni. Per capire il nuovo mondo basterebbe anche solo rapportarsi alle persone giuste.
Penso che però questo sia un discorso che si lega a tutta l’Italia che sembra voler dimenticare il suo passato migratorio. Non crede?
In realtà lo vuole dimenticare! Anche perché per certi discorsi politici che si stanno affermando sembra quasi che non si debba ricordare quel passato che l’Italia ha avuto perché sembrerebbe la giustificazione che l’emigrazione è un dato contingente alle realtà economiche che si vivono. Se noi oggi siamo i destinatari di un flusso migratorio, in passato siamo stati noi ad essere ospitati da altre realtà. Ricostruire la nostra storia dell’emigrazione servirebbe a capire meglio il presente, mentre cancellarla permetterebbe di poter mentire sulla realtà attuale.
Nel suo libro, Il futuro sospeso, si racconta la storia della sua famiglia che, mentre tutti abbandonavano la Sardegna o la evitavano, è venuta a lavorarci e a viverci! Un’emigrazione all’inverso che ha fatto di voi dei pionieri!
Negli anni del fascismo la Sardegna era vista come terra di condanna, di confino, di emarginazione. Gli ufficiali pubblici che commettevano delle irregolarità, delle scorrettezze nei confronti del regime vi venivano mandati per punizione. Era la terra peggiore in cui essere confinati a causa delle pessime condizioni dei trasporti di allora unitamente a tutte le altre situazioni che si potevano verificare una volta arrivati. Sempre negli anni del fascismo l’unico progetto vero di sviluppo fu quello legato all’elettrificazione sull’asse nord sud della Sardegna. Mio padre ebbe la possibilità di venire a lavorare come palista ed ebbe così modo di acquisire delle competenze che l’hanno fatto crescere professionalmente. La cosa straordinaria della mia famiglia è che ha seguito la linea dell’elettricità: prima Sindia, Bonorva, poi a Barumini e infine a Monserrato! Mio padre ha avuto il coraggio pionieristico di chi, in una terra vista come di emarginazione, morte, confino, povertà venne ad affrontare la sfida e fu talmente impressionato dalla realtà sarda che decise di rimanervi e di costruivi il futuro della sua famiglia.
Così, mentre tutti lasciavano al Sardegna,.. lui scegli di rimanere.
Si! E con entusiasmo! Mia madre veniva da una terra nella quale il mondo femminile viveva in assoluta emarginazione; così non le sembrò vero di arrivare in una terra nella quale la donna aveva una funziona sociale importantissima. La donna del pastore gestiva tutte le pratiche burocratiche e aveva rapporti con l’apparato amministrativo. La sua funzione sociale, nella realtà sarda, era completamente diversa rispetto a quella della società lucana.
In effetti le donne sarde vivevano la situazione inversa quando partivano- Sua madre invece ha trovato qui l’eldorado! Che cosa ha impressionato tanto suo padre al punto da fargli decidere di rimanere qui?
Mio padre è rimasto impressionato dal fatto che mentre in Basilicata la divisione sociale era fortissima, in Sardegna vi era un’equità basata sì sulla povertà, ma. che stabiliva anche uno spirito di solidarietà molto forte. Decise così di far arrivare anche mia madre e di star qui sino al 1943 quando, dopo i terribili bombardamenti che devastarono Cagliari, fece ritorno in Basilicata. Nel ‘43 lavorava all’aeroporto di Monserrato dove riparava le parti elettriche dei motori degli aeroplani.
Insomma, da buon emigrato.. ha fatto strada! Sua madre come prese la scelta del rientro in Basilicata?
Esatto. E lui ha dovuto tutto a quell’esperienza maturata in Sardegna. Mia madre, che aveva acquisito una dimensione sarda, non voleva assolutamente andar via. E quando, alla morte di mio padre, nel 1963, rimase sola con i figli, la prima idea fu quella di tornare in Sardegna. Questa vicenda di mia madre dimostra il reale peso che ha la cultura di un popolo. In Basilicata mia madre non aveva dimensione economica ma soltanto culturale: sapeva benissimo che nella logica del sistema meridionale non ci sarebbe stata autonomia nemmeno per noi che stavamo studiando. Sapeva invece, per l’esperienza che aveva vissuto, che in Sardegna c’era un maggiore margine di libertà e decise di tornare qua.
È quasi un paradosso!
E’ così. Soprattutto per una persona che non era strutturata culturalmente per acquisire strumenti critici. È la dimostrazione del fatto che quando tu trasmetti messaggi positivi anche in soggetti che non sono in grado di reinterpretarli criticamente, svolgi una funzione positiva. La cosa incredibile è che mia madre non sopportava la Calabria, regione in cui visse 20 anni, perché la dimensione dei rapporti da lei conosciuti in Sardegna era completamente diversa. Quando varca il mare e scopre che la povertà è una dimensione collettiva perché non ci sono squilibri paurosi, scopre un mondo nuovo, quasi una rinascita. Mia madre, nella prima esperienza, ha vissuto in Sardegna meno di dieci anni, dal 1935 al 1943; ma sono stati così decisivi per la sua formazione che dopo aver vissuto vent’anni nel Meridione, nel 1969, a 59 anni, convinse la mie sorelle a tornare nell’Isola perché la cultura sarda, con la sua solidarietà, rappresentò il principale elemento di richiamo.
Ed è stato, in effetti, quello che ha trattenuto i sardi dall’emigrare. In Sardegna, tra l’altro non esisteva, come in buona parte del Sud Italia, la regola del primogenito. Immagino valesse anche per la Basilicata.
Tenga conto che mia madre e i suoi fratellini erano nati dal primo matrimonio di mio nonno. Una volta morta la madre di mia madre e del fratello, poi emigrato in Brasile, lei ha dovuto fare i conti con una matrigna. Allora era una lotta per la sopravvivenza. Alla condizione sociale si aggiungeva dunque la condizione particolare del nucleo familiare. Per mia madre la Sardegna è stata davvero una liberazione! E sa qual è la parte dei suoi ricordi che mi ha maggiormente affascinato? Il fatto che siccome non capiva una parola sola del sardo, mio padre la fece assistere da una donna, Maria Giuseppa, che le ha fatto da interprete! E lei non l’ha mai dimenticata perché è stata la chiave interpretativa che le ha consentito di capire quel mondo. Lei, inoltre, si sforzava di impararla quella lingua sconosciuta. Voleva così tanto diventare sarda da cercare di impadronirsi anche della lingua.
Ancora più incredibile è il fatto che si sia innamorata così tanto della Sardegna pur spostandosi di paese in paese e, anche, di cultura in cultura.
Lei sosteneva che la concezione dei rapporti sociali in qualunque parte della Sardegna era sempre la stessa. Siccome l’economia di base era quella agro-pastorale, faceva sì che le varie comunità distribuissero i pochi beni disponibili. E poi la funzione femminile in quelle comunità, nell’educazione, nei rapporti umani ecc, era determinante.
La sua famiglia ha vissuto di fatto diverse esperienze di emigrazione, compresa quella di suo zio in Brasile! Secondo lei dove queste persone trovavano il coraggio di passare il mare?
Avevano la temerarietà dei pionieri: vivevano in un angoletto sperduto del sud Italia ed hanno avuto il coraggio di affrontare il mondo. Per noi ora è semplicissimo viaggiare, loro invece dovevano prendere calessi, cavalli, treni, bastimenti, senza sapere nulla! Poi arrivavano a destinazione e riuscivano in qualche modo ad arrangiarsi. Insomma, la stessa cosa che ha vissuto mia madre qua in Sardegna sicuramente l’hanno vissuta nelle povere comunità del mondo, Brasile, Argentina, Stati Uniti, quelle piccole società che si aggregavano per la sopravvivenza e che mettevano i nuovi emigrati nella condizione di continuare a vivere.
Infatti chi emigrava in questi luoghi aveva, in un certo senso, meno difficoltà di chi, invece, emigrava in Germania, Francia o Svizzera.
Certo. Nei Paesi più ricchi, le comunità locali avevano già fatto il salto di qualità. È quello che succede ora da noi dove i lavori più umili vengono fatti svolgere agli immigrati. La stessa cosa avveniva nei paesi europei.
Cosa si potrebbe fare oggi per le comunità emigrate?
Innanzitutto è la Sardegna che deve porsi in maniera diversa nei confronti dell’emigrazione. Intanto sarebbe necessario che una componente dell’Assessorato al lavoro si occupasse dell’emigrazione in termini di progettualità: se i circoli vengono lasciati a se stessi e alla loro capacità organizzativa, nel momento in cui i giovani non fanno più ricambio, quelle collettività sono condannate a sparire. Si deve mettere in moto un interscambio che consenta un flusso costante in andata e ritorno. Perché non chiamare degli emigrati per tenere relazioni qui in Sardegna? Mentre gli emigrati chiamano docenti, esperti, giornalisti a parlare nelle loro sedi, perché non accade il contrario? Perché non vengono interpellate persone che raccontino qual è oggi il mondo dell’emigrazione? Ecco perché la straordinaria conferenza svoltasi a Cagliari nel 2008 non sarebbe dovuta rimanere un fenomeno isolato ma avrebbe dovuto predisporre iniziative finalizzate ad interventi mirati. E’ mancata la Sardegna. Il filo più saldo va allacciato qui.
Mariella Cortes