Torna in libreria Vanessa Roggeri, scrittrice cagliaritana quarantatreenne: il suo romanzo, “Il battito dei ricordi” – il quarto dopo “Il cuore selvatico del ginepro”, “Fiore di fulmine” e “La cercatrice di corallo” –, ci porta in viaggio, come lettori, in Spagna, in Francia e in Italia, tra passato e presente.
Ci rapisce, ci ammalia e ci conduce in un mondo dove tutto può essere. A me piace vederci una morale, in questo testo: l’amore, quello vero, rinasce dalle proprie ceneri e non si fa imbrigliare, non si fa spegnere e non si nasconde. Ma, come ci dirà la Roggeri, la chiave di lettura è affidata a chi decide di perdersi nella lettura.
Si parla di vite passate, di reminiscenza, di ricordi che tornano e sono un po’ nostri e un po’ di chi siamo stati prima di nascere. Argomento controverso, che sin da sempre accende discussioni e provoca riflessioni. Come ti è venuta questa idea e, soprattutto, cosa ne pensi tu dell’argomento?
L’idea è nata mentre sfogliavo una monografia sui capolavori di Raffaello, in particolare l’affresco Il miracolo di Bolsena custodito nella Stanza di Eliodoro in Vaticano. Ho sperimentato uno strano dejà vu, una sensazione di “già conosciuto” che nella mia testa ha dato vita a suggestioni molto affascinanti. L’argomento già all’epoca non mi era estraneo, ho sempre provato un forte interesse per le dottrine alternative, i lettori che mi conoscono sanno che i miei libri in qualche modo sono sempre in bilico tra due mondi: quello ancorato al tangibile, e quello che fa pensare all’impossibile. Consapevole di affrontare un tema molto elusivo, quasi inafferrabile, ho scelto di adottare un approccio di ricerca che fosse il più possibile concreto. È un punto di vista che mi fa sentire a mio agio e impedisce alle fantasticherie di prendere il volo a discapito di una narrativa che deve essere veritiera e aderente alla realtà. In tutta onestà non posso dire di credere fermamente alla teoria della reincarnazione, ma la vita è un mistero talmente vasto e insondabile che sarebbe sciocco e arrogante da parte mia negare ciò che di fatto potrebbe essere una possibilità. Penso che tutto vada oltre la semplice opinione soggettiva.
In tutte le tue storie precedenti, si respirava l’odore dell’Isola, le sue tradizioni e le sue credenze. Ora, ne “Il battito dei ricordi” spazi, la narrazione si sposta e ci porti in viaggio. Ricordo che anni fa, quando pubblicasti “La cercatrice di corallo” – capolavoro che lessi in un giorno e mezzo, completamente rapita dalla vicenda e dal tuo inconfondibile stile –, alcune blogger, pur avendo dato dei pareri estremamente positivi al romanzo, ti esortarono a “fare il salto”, a parlare anche di qualcosa che non fosse puramente isolano. Ti hanno fatto pensare le loro parole o è stato un salto che hai sentito come naturale?
Ricordo molto bene che all’epoca non si trattò di semplici “esortazioni”, bensì di vere critiche al fatto che ancora una volta avessi ambientato un mio romanzo in Sardegna. Un libro può non piacere, è legittimo, ma diventa inaccettabile che un recensore si dica stufo che un autore napoletano ambienti le sue storie a Napoli, o un siciliano in Sicilia, o un abruzzese in Abruzzo. Ovviamente un libro complesso come Il battito dei ricordi non può scaturire da un motivo così futile, occorre un percorso di riflessione lungo e meditato, voluto e soprattutto congeniale alle proprie inclinazioni. Non si tratta di un ragionamento fatto a mente fredda, pianificato per pura strategia. Ci vuole una storia e l’idea per la storia in questione è arrivata circa 15 anni fa, molto prima della trilogia sarda. Non ho mai pensato di scrivere esclusivamente di Sardegna, non era il mio obiettivo anche perché non è nella mia natura mettere limiti alla mia creatività. Semplicemente seguo le storie, ovunque esse mi portano. Quindici anni fa vinsi un concorso letterario con un racconto che divenne poi le prime pagine del romanzo; alla fine ci sono voluti tutti questi anni perché la storia fosse pronta per diventare un libro.
La narrazione si svolge su due piani, con da una parte un narratore onnisciente che racconta le vicissitudini dell’incidente di Javier e le tribolazioni della famiglia, e dall’altra la moglie dell’uomo, Isabel, che in prima persona spiega tutto dall’interno. La parte in prima persona, in effetti, prevale, e ci ritroviamo a sentire come nostre le angosce di una moglie con il cuore infranto. Quando ti sei messa a scrivere, sapevi già che avresti utilizzato questa tecnica di POV alternati e completamente opposti o ti è venuto naturale mano a mano che hai iniziato a tamburellare con le dita sulla tastiera del computer?
Il punto di vista di Isabel narrato in prima persona è venuto in modo naturale prima di iniziare la stesura. La prima persona crea di gran lunga una maggiore immedesimazione nel lettore, ma è una forma molto insidiosa difficile da gestire, specie se si sceglie come tempo verbale il presente indicativo. L’idea per la terza persona adottata per gli interventi “esterni” alla narrazione principale è arrivata come logica conseguenza. Sono le storie a suggerirti come vogliono essere raccontate.
Si parla d’amore, sì, ma in modo particolare. Da una parte abbiamo una storia d’amore voluta dal destino stesso, che non può non trovare il modo di (ri)esistere – sembra quasi naturale che avvenga –, e dall’altra abbiamo una storia d’amore che sembrava perfetta ma che finisce, come spesso accade nella realtà, d’altronde. Sulla copertina del libro c’è una frase che mi ha colpita tanto: “Se ami qualcuno, lascialo libero”. È un bel messaggio da veicolare. Vuoi dire due parole su questo?
In effetti, se ci pensi bene, non suggerisco al lettore una soluzione univoca al mistero dei reminiscenti. Non sappiamo se l’amore dei due protagonisti è predestinato o se frutto di circostanze che influenzano la mente. Volevo che ogni lettore formasse da sé una propria idea, che trovasse le risposte ai quesiti esistenziali che la storia solleva. Posso aggiungere alla frase citata che riuscire a non essere egoisti quando si vive una relazione sentimentale è molto difficile; si dovrebbe volere il bene della persona amata, ma spesso si è vittime dei propri infantilismi, delle insicurezze, dei desideri di ripicca, insomma l’amore paradossalmente può far emergere il peggio di una persona. Trovare l’equilibrio – un equilibrio che è fatto anche di altruismo – significa talvolta sacrificare una parte di noi stessi.
Ti è mancato non parlare della Sardegna che senti scorrerti nelle vene?
Vorrei specificare che non ho abbandonato la Sardegna, anzi la ritroverete in un mio nuovo lavoro che uscirà tra poche settimane. Non mi è mancata nella misura in cui un autore ha necessità di confrontarsi con sfide che alzano sempre più l’asticella delle difficoltà. Ho bisogno di trovare costantemente nuovi stimoli e vie creative, indipendentemente dal contesto in cui ambiento le storie. Fa parte dell’evoluzione. Resta comunque innegabile la differenza che provo quando racconto della mia terra e quando affronto territori “stranieri”: la prima è come se fosse mia madre, a livello affettivo non c’è paragone.
Ci dici qualcosa sui primi feedback? Il libro è stato accolto con grande entusiasmo.
Sì, sto riscontrando grande entusiasmo. “L’ho divorato” è un leitmotiv che mi dà grande gioia e soddisfazione. Sapevo che il passaggio verso nuovi orizzonti avrebbe sorpreso i lettori, e un po’ temevo che li destabilizzasse, però allo stesso tempo confidavo fermamente nella forza del romanzo. Sono felice di non essermi sbagliata.
Nei tuoi progetti futuri c’è di nuovo l’Isola o pensi di spostare le narrazioni qua e là nel mondo per un po’? Qualcosa l’ho già accennato. Per il resto andrò dove mi porteranno le storie.
Ci puoi raccontare un aneddoto sulla stesura di questo testo?
Forse l’aneddoto più curioso riguarda un ricordo dell’adolescenza riemerso durante lo studio dei casi più eclatanti di reminiscenza. La reminiscenza può sopraggiungere dopo un evento traumatico, oppure può essere spontanea e riguardare i bambini tra i tre e i sette anni. Tanti anni fa, un mio cuginetto incominciò a raccontare per un periodo come era “morto” nella sua vita precedente, disse dove e come (un incidente in moto), e ricordo chiaramente quanto questi racconti insistenti avessero spiazzato tutta la famiglia. Poi, proprio come tutti i reminiscenti spontanei, verso i 7 anni i racconti sono sfumati fino scomparire.
A giudicare dagli eventi e dai periodi raccontati – sui quali non mi soffermo per non fare spoiler –, c’è stato un grosso studio, dietro questo nuovo lavoro. Non credo di esagerare se penso che tu abbia impiegato più tempo china sui libri, a studiare eventi storici rinascimentali e fatti – cause, conseguenze, comportamenti – relativi alle neuroscienze, che a stendere, magari, la bozza della storia vera e propria. Sbaglio? Come ti sei documentata e per quanto tempo?
Hai intuito benissimo, tanto studio, tanta ponderazione affinché ogni incastro fosse perfetto, però anche la stesura è stata impegnativa. A differenza dei precedenti libri, che hanno una sola stesura, questo ne ha richiesto ben quattro. L’ambientazione contemporanea necessita di grande cura dei dettagli proprio perché il lettore è attentissimo a un mondo narrato che conosce perfettamente. La difficoltà maggiore è stata comunque l’immedesimazione psicologica ed emotiva con i protagonisti. Questa parte ha richiesto totale comprensione e coinvolgimento.
Ti faccio una domanda più generale: secondo te il futuro del mondo editoriale è in crisi? E, nel caso la risposta sia sì, quali sono le cause e come si potrebbe rimediare?
È difficile rendere con obiettività l’immagine di un mondo a chi non ne conosce le dinamiche più intime e meno nobili. Da scrittrice e lettrice potrei dire molte cose, preferisco però soffermarmi su un dato positivo: mi fa piacere constatare che questa pandemia abbia avuto almeno un effetto utile, ossia quello di portare/riportare i lettori in libreria. Nel 2020 il mercato ha segnato un’evidente ripresa, e ciò ci fa capire che forse l’origine della crisi non risieda tanto in un sistema editoriale ipertrofico troppo votato agli incassi e poco alla letteratura, quanto nell’astenia mentale di un popolo di non-lettori. Una percentuale di italiani ha riscoperto il valore del libro in quanto oggetto di intrattenimento, ma anche in quanto contenitore di sogni, speranze, emozioni. I libri aiutano a sentirsi liberi anche quando la libertà viene temporaneamente negata. La lettura è un’abitudine fatta di puro piacere che va compresa da sé, non funzionano imposizioni e convincimenti vari. Ecco perché sono fiduciosa che questo piccolo cambiamento possa segnare l’inizio di una ripresa. Io voglio crederci.
Federica Cabras