Santino Marteddu è un poeta del nostro tempo. Sa utilizzare le parole, nel loro significato semantico, in un tutt’uno con il suono e anche con la musica che le stesse, associate nel ritmo delle sestine, sanno trasmettere. Usa le parole con il rigore della tradizione orale sardo-logudorese, “est bene faeddadu”, direbbe Bachisio Bandinu, perché il suo linguaggio sa trasmettere visioni e stati d’animo, richiama silenzi e identifica di volta in volta luoghi fisici vissuti e financo solo immaginati.
Santino Marteddu è un poeta del nostro tempo perché sa raccontare le angosce che appartengono ai nostri giorni, senza tuttavia patire la paura della sconfitta o dell’isolamento; dietro ogni dolore si nasconde, a volte inaspettata, la buona notizia, il lieto evento. Racconta la morte, anche delle persone care, con struggente partecipazione ma anche con la forza dello spirito che appartiene all’animo del grande poeta. “Bae chin Deus, Prè”. E’ il saluto al fratello che è volato in cielo. “Predu. Oh, Predu caru. In-d-unu sinnu/a chelu ses boladu mudu,mudu/chena mancu nos dare unu saludu,/chena manchu non facherer unu tzinnu..” (Pietro. Oh Pietro caro. In un attimo al cielo sei volato silenziosamente/ senza un saluto,/ senza un cenno). Instaura col dolore per la dipartita del suo caro fratello un dialogo ancora vitale, vuole raccontare la morte a viso aperto, sente il dovere di parlare anche con chi non può più ascoltarlo e dargli quindi una qualche risposta. “Ma non fis solu, Prè. S’aias bidu/s’onore chi t,an dadu sos cumpanzos,/ parentes, paesanons e istranzos, e s’acunnortu chi nd’amus retzidu..” (Ma non eri solo Piè. Avessi visto/quale onore ti hanno reso gli amici/ i parenti, i paesani e gli ospiti/e il conforto che ne abbiamo ricevuto”. E’ la forza della poesia, della Poesia di Santino Marteddu, che va oltre la morte, che ha da dire qualcosa anche oltre il confine e il limite del nostro sperare. E’ una poesia che vuole parlare all’animo umano, ma che percorre sentieri che sono estranei alla quotidiana visione razionale. Santino compone la poesia per avere il diritto pieno di parola, per sottrarsi alla critica spietata della sua gente contemporanea che non sempre condivide la divulgazione di sentimenti inspiegabilmente intimi; che a volte contesta la traduzione, direi incisione su carta, di comuni, ancestrali timori del vivere e anche del sopravvivere tra le incertezze del quotidiano e le avversità della natura, che non vuole fare i conti con la dimensione del soprannaturale a volte cinico nemico e feroce persecutore.
Ma Santino Marteddu è soprattutto un poeta della vita. Racconta gli eventi della sua famiglia con la gioia dell’animo nobile, quasi fanciullesco. La poesia è quasi un involucro che sta per esplodere fra le mani, non riesce a trattenersi quando parla di sua nonna Pasquala: “Lassade chi fieru cantu mai,/abòchine a sos bentos, a donz’ala:/mannai mia est tzia pasquala/e che a issa non bi nd’at mannai” (Fiero e orgoglioso quanto mani/posso gridare ai quattro venti:/Mia nonna è tzia Pasquala, e come lei non esiste altra nonna”). Ama la poesia perché gli consente di gridare “ai quattro venti” le sue sensazioni, di non sopprimere o nascondere i suoi sentimenti, perché riesce a parlare e vivere oltre l’ipocrisia dei costumi e delle consuetudini, perché vive nel presente quello che molti rimandano a un futuro incerto.
Per Santino la poesia è un luogo, forse il luogo della libertà.
“Bae, fizu istimadu. Asa s’edade/de currere solu s’ardia….isparghe s’ala e bola, in libertatde” (Vai, figlio amato. Hai l’età/di correre da solo l’ardia (corsa sfrenata di cavalli)…apri le ali e vola, in libertà”. La poesia è libertà, perché la vita del poeta è impregnata di libertà, la stessa che vuole trasmettere e consegnare come un viatico al figlio il giorno delle nozze. Nel momento del distacco dalla casa natale non gli regala “tanche” o partecipazioni societarie ma le chiavi del vivere liberi, chin s’ala isparta.
E’ la fede nella vita insieme alla consapevolezza della sua intrinseca precarietà che ispirano la penna di Santino Marteddu. Non ricerca e non ambisce a traguardi dell’artificio umano, non si perde nella malinconia di una diversità avvertita come disuguaglianza, non implora per la sua gente una rinascita impossibile, non si attarda ad inseguire i miti di un progresso che ora più che mai sta mostrando tutte le sue miserie e contraddizioni. Santino ammira ed esalta il ciclo della vita nel suo svolgersi naturale, è immerso a tempo pieno nell’accadimento dei fatti che sono opera degli uomini e della mano invisibile di un Dio che avverte essere la sua vera forza. Che gli fa sentire e vedere la vita come un dono, con quello spirito di Francesco che restituiva gioia e dolcezza a tutte le Creature. “Custa rosa dechida,/dae Chelu ispedida,/in su zardinu ‘e domo est irbrocata,/isparghende in s’aera/profumos de amore e de ispera” (Questa rosa avvenente,/inviata dal cielo, è sbocciata nel nostro giardino,/diffondendo nell’aria/profumi di amore e di speranza). E’ il cantico alla nipotina dae Chelu ispedida, frutto dell’amore e segno del mistero profondo che accompagna la vita fin dal suo principio. Non sono le parole che derivano da una fede convenzionale e neppure radicale, è il cantico del Poeta che sa indagare dal profondo e capisce che anche la rivoluzione più importante che può capitare all’uomo, quella di nascere, appartiene a una dimensione che ci sfugge e che solo la poesia può intercettare con la sua forza evocativa.
La poesia come linfa, come fonte per vivere al meglio la vita.
Non un ripiego e tanto meno una resa rispetto alla vita. La poesia per trovare le risposte che la vita non riesce a dare, per riprendere il cammino dopo il dolore e la sofferenza, per rivedere la luce dopo una giornata vissuta al buio, per ritrovare le persone e se stessi nella calca di tutti i giorni dove nessuno parla perché tutti sono collegati al resto del mondo attraverso una rete invisibile e impalpabile. La poesia per fantasticare e per sperare, la poesia per ripartire tutti i giorni. “Dia cherrer bolare che puzone,/in libertade e chena pensamentu/e artzare lizeri, in alas d’entu,/a tenner sos isteddos a sa coa/ pro lis furare calchi ispera noa,/pane ‘e sa vida, puntorzu e isprone” (Vorrei volare come un uccello,/in libertà e senza pensieri,/e librarmi leggero, con ali di vento, e acchiappare le stelle alla coda/per rubare loro nuove speranze). S’intitola Dia cherrer, Vorrei, è lo sguardo rivolto, leggero, al futuro, anche a quel futuro che seguirà alla vita terrena, un modo di essere che puzone che però vorrebbe anticipare nella sua attuale stagione per permettergli di risolvere il conflitto che è nelle relazioni fra gli uomini, per affermare la pace che è sempre più minata dalla prevaricazione e dall’ottuso egoismo. Vede e assiste alle scene di terrore e di prevaricazione, indignandosi e provando rabbia. Il poeta non è uomo di azione ma di testimonianza, non può far finta di niente di fronte all’orrore, deve farsi carico delle pene e della negazione dell’umano perché chi non vede deve vedere, chi non sa deve sapere: testimone del suo tempo e memoria per le generazioni a venire. “Abu Ghraib. It’inferrru, Sennore…/Travas, cadenas, puntorzos e frustas/corpos senza difesa, umiliados,/agutzinos sen’anima, airados/…Sa vida e-i sa morte non sun tuas,/omine chena Fide, iselleradu..” (Abu Ghraib. Che infermo, Signore…/Pastoie, catene, pungoli e fruste/corpi senza difesa, umiliati/aguzzini senz’anima, arrabbiati,/….La vita e la morte non sono tue,/uomo senza fede,scellerato..). Quando l’essenza della vita, la sua dignità, e quando la vita stessa diventa arbitrio nelle mani altrui, come nel caso di Abu Ghraib, il poeta insorge e grida la sua rabbia e il suo tormento, diventando testimone autentico del Creato che nessuno può manomettere o sacrificare per alcuna razionale o convincente ragione.
Animo libero che fantastica e vola, ma anche coscienza critica di una società tormentata. Vive e partecipa di questo tormento e di queste miserie, non sale sul monte per prenderne le distanze, si fa carico anche delle pene e delle colpe altrui, partecipa al dolore e agli atti disumani mettendosi in discussione: “Abu Ghraib.Triste, umiliadu/m’irgonzo d’essere omine..” (Abu Ghraib. Triste, umiliato/mi vergogno di essere uomo..).
Ma su puzone riprende a volare e ritrova il ristoro quando plana verso Iscattai e Sa Costa ‘s’Istria, il suo borgo natio, la sua Orotelli, tanto amata e pensata nelle lunghe notti delle estati baroniesi. Il poeta parte e ritorna ai luoghi dell’infanzia, alle strade assolate della stagione ormai passata, lo avvolge la nostalgia e il pensiero del ritorno. Trova la fonte del suo fantasticare ripercorrendo i sentieri e le voci delle persone che vivono solo nel ricordo, con una memoria che si fa leggenda e aiuta a rimettere ordine anche nei momenti della rottura e della sofferenza. Le parole per il borgo diventano estasi e il racconto va oltre la poesia, è l’occasione per dire a tutti della sua riconoscenza. Ogni volta che ritorna in paese è un susseguirsi di emozioni, come l’incontro con la propria amata, si perde nelle parole di affetto e stima, non sa trattenere la sua emozione: “Vives, biada, comente una ‘ia/tra rocas, Thurpos, contos de fochile,/ma andas a bratzeta, in cumpannia,/de su progressu modernu e tzivile” (Vivi, felice, come una volta,/tra rocce, Thurpos e racconti fiabeschi,/ ma vai al passo/ col progresso moderno e civile). In questo ritorno va anche cercato il lievito di Santino Marteddu. Il Poeta non va mai in pensione, non appende le scarpette al muro; la sua penna è sempre pronta sulla scrivania, attende di essere usata, di farsi strumento per i nuovi cantici, per il volo che continua. Quello di Santino lungo i sentieri della vita che sa raccontare a partire dalle cose semplici e autentiche.
Antonello Menne