Che cosa si sarà sussurrato per i vicoli dei paesi e le strade di città, tra le campagne e le piazze delle chiese, nei giorni seguenti allo sbarco sulla Luna? Quanti, ma soprattutto come, nella Sardegna del 1969, prima dell’arrivo del turismo di massa e degli smartphone, degli hashtag e delle story, hanno vissuto con la trepidazione da grande occasione quel momento, cercando, intimamente, di non perdere uno e un solo istante della diretta tv che avrebbero ricordato per tutta la vita?
Sicuramente, nelle case degli italiani, in quella notte tra il 20 e il 21 luglio 1969, si respirava un gran profumo di caffè: chi aspettava sul divano, chi a letto, chi sul terrazzo, guardando la Luna, chi cercava di non farsi sopraffare dal sonno e chi raggiungeva i fortunati possessori di una televisione in bianco e nero. Oltre 50 anni sono passati da quel momento storico che non ha subito l’ingerenza di dirette social, di opinionisti dell’ultima ora o complottisti da tastiera. Non allora, perlomeno. Ed è per questo che, forse, sembra che di anni ne siano passati molti di più. Un momento che è stato unico. E c’è, in questa vicenda che ancora oggi fa parlare e fantasticare, un protagonista indiscusso che, per l’Italia, ha rappresentato più dei tre pionieri dell’Apollo 11. Chiedete a chiunque avesse più di 6 anni nel 1969 di citarvi un nome legato al momento dello sbarco sulla Luna e sarà il suo, Tito Stagno. Di lui e di quella infinita diretta, condotta in mutande per sopportare il caldo torrido, si è detto e letto tanto, così come ha fatto storia la diatriba con Ruggero Orlando sull’esatto momento in cui la sonda toccò il suolo lunare. Il solo fatto di pronunciare il suo nome rievoca un’epoca di scoperta e immaginazione ma, anche, di cronache di grandi avvenimenti storici che videro spiccare la sua firma. Tito Stagno era, già prima dello sbarco sulla Luna, “il vostro inviato da qualunque luogo”. Nato a Cagliari il 4 gennaio del 1930, esordisce su Radio Sardegna per arrivare a Roma nel 1955 e, da lì, iniziare una fulgida carriera in Rai. La sua firma si lega a doppio filo a memorabili eventi del secolo scorso, documentando i viaggi di due Presidenti, Segni e Saragat, il primo viaggio di Papa Giovanni XXIII – in treno, a Loreto -, le visite dei Presidenti USA Kennedy e Eisenhower in Italia, indimenticabili eventi sportivi, e, soprattutto, le grandi conquiste spaziali.
Resistere alla possibilità di fare una chiacchierata con lui è impossibile. Averne l’occasione è un regalo da condividere.
Che cosa sognava di fare da bambino?
Sognavo di fare il medico! Mi sono iscritto nella facoltà di Medicina e ho dato diversi esami con esito molto positivo, poi, mentre frequentavo l’università, ho cominciato a lavorare a cachet a Radio Cagliari che allora si chiamava Radio Sardegna… non c’era ancora la tv, parliamo dei primissimi anni Cinquanta. Lì ho cominciato ad amare questo mestiere, imparando a fare il giornalista tra radio cronache, interviste e così via. Nel 1954 c’è stato il primo concorso nazionale per telecronisti: Radio Sardegna mi ha iscritto proprio d’obbligo, si può dire… Io non sapevo nemmeno che cosa fosse la tv. Così, ho fatto il primo esame a Roma, il secondo a Milano: siamo usciti in sei e insieme a me c’erano Furio Colombo, Umberto Eco e Gianni Vattimo.
Com’è stato il passaggio dalle aule di medicina allo studio di Radio Sardegna?
Mi sono proprio venuti a prendere a casa! Radio Sardegna era rimasta senza annunciatori maschili e il direttore si ricordò di quel ragazzo che aveva presentato uno spettacolo di studenti universitari al Teatro Massimo di Cagliari. Si informò e scoprì che ero il figlio di Mario Stagno, direttore di un assessorato della Regione Sardegna. Così, mi vennero a prendere a casa e mi portarono in macchina fino alla sede di Radio Sardegna… ricordo che non ero nemmeno arrivato che mi sbatterono dentro lo studio a leggere le notizie del Gazzettino Sardo! Cominciai così, poi, piano piano, mi accorsi che preferivo fare le notizie che leggerle! Allora, iniziai a scrivere io i pezzi utilizzando quei periodi brevi che mi permettevano di respirare profondamente e far fuoriuscire la voce con il massimo della potenza.
E gli studi in Medicina?
Abbandonati: ma quanto fatto mi è servito tantissimo per la professione. Tutto quello che fai, serve! Nel mio caso gli studi in Medicina mi hanno aiutato quando, per lavoro, ho iniziato a seguire i congressi medici, intervistando i grandi luminari del tempo. Quando il Presidente Einaudi stava per morire, nell’intervistare i medici ricordo i volti meravigliati dei colleghi giornalisti, stupiti nel constatare quanto fossi preparato nel riuscire a fare domande molto specifiche sullo stato di salute del Presidente. Mia figlia e mio fratello minore hanno scelto la strada della medicina. A quanto pare era scritto che quel percorso entrasse nella famiglia Stagno.
Per un attimo, sembrava fosse la sua strada.
Il camice bianco, curare la gente… ma poi…sarei stato un pessimo medico, non ho manualità! Infatti, avrei fatto psichiatria, se non fosse stato per il mese trascorso come interno nel manicomio di Cagliari! Avevo visto un film americano, "La fossa dei serpenti", che raccontava la realtà dei manicomi: ecco, quello che si vedeva nel film era la rappresentazione di un Grand Hotel al confronto di quello che avevo visto io dal vivo. Ricordo i malati di Parkinson che, sdraiati sul letto, facevano il classico gesto “del contar monete”, coperti di mosche ed escrementi. E io dicevo a me stesso: come posso star qui senza poter far niente? Quella è stata la goccia che mi ha fatto decidere di abbandonare gli studi in medicina. Certo, innamorandomi del nuovo mestiere, un pensiero in tal senso l’avevo già fatto, ma quella è stata davvero la classica goccia che fa traboccare il vaso.
E così, da Cagliari, arriva a Roma dove diventa, di fatto, “il vostro inviato da qualunque posto”.
Avevo detto: "vediamo come va, altrimenti torno indietro e termino gli studi, mi manca poco". Invece il lavoro mi è piaciuto tantissimo e da quel momento in poi è stato un crescendo che mi ha portato a fare una serie di cose importanti: ho conosciuto Dwight Eisenhower quando era ancora presidente: ricordo che arrivò a Roma con il primo aereo a reazione nell’aeroporto di Ciampino, la cui pista non era ancora abilitata all’arrivo di un aereo così veloce! Fu proprio il collaudo, diciamo! Ed è stato lì che ho stretto la mano al grande generale della Seconda Guerra mondiale, un grande uomo, autorevole che aveva sulle spalle una guerra, fatta, una guerra sofferta ma vinta! Ricordo anche di quando raccontai la visita di John F. Kennedy a Napoli, qualche mese prima dell’assassinio: la folla circondava la macchina e il presidente, in piedi, parlava con queste migliaia di persone guardandole in faccia una alla volta, confermando la sua innata capacità di comunicazione, quella del grande tribuno che sa che la comunicazione è fatta soprattutto di sguardi.
Chiedete a chiunque avesse più di 6 anni nel 1969 di associare un nome al momento dello sbarco sulla Luna e sarà il suo, Tito Stagno. Di lui e di quella infinita diretta, condotta in mutande, per sopportare il caldo torrido si è detto e letto tanto, così come ha fatto storia la diatriba con Ruggero Orlando sull’esatto momento in cui la sonda toccò il suolo lunare. Il solo fatto di pronunciare il suo nome rievoca un’epoca di scoperta e immaginazione ma, anche, di cronache di grandi avvenimenti storici che videro spiccare la sua firma
Tra i tanti servizi realizzati, di quale conserva il ricordo più bello?
Il primo servizio da inviato, in Giordania, durante il regno di Hussein. Era in corso una rivoluzione, i profughi palestinesi minacciavano il palazzo reale e il re si era rinchiuso, protetto dalla legione araba, in un palazzo alla periferia della città. Quando arrivai a Beirut, c’era la sesta flotta americana, quella che veniva mandata quando le situazioni in Medio Oriente diventavano torbide. Intervistai subito il comandante della flotta e poi partii con l’aereo successivo per Amman dove ebbi la fortuna di incontrare, in un bar, il segretario particolare del re che aveva studiato all’università per stranieri di Perugia. Parlava bene l’italiano e mi procurò l’intervista con il re. In un periodo in cui i grandi giornalisti si trovavano ad Amman e non riuscivano a inviare gli articoli a causa di una censura severissima, io spedivo le pellicole con l’aiuto dei motociclisti della legione araba che consegnavano in aeroporto, pronte per essere inviate a Roma, le bobine di pellicola.
Durante la sua ospitata da Fabio Fazio, parlando degli anni della sua attività, ha detto una frase che mi ha colpita molto: “Erano gli anni di un’Italia che non litigava”. Può citarmi un ricordo ad esempio?
Quando ho conosciuto Aldo Moro, il 4 novembre 1966, il giorno della grande alluvione di Firenze. Mi trovavo in Friuli-Venezia Giulia perché Moro era a Re di Puglia, a rendere omaggio ai caduti nell’anniversario della vittoria dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale. Feci il servizio sotto un terribile acquazzone e, terminata la cerimonia, mi rifugiai sotto un portone mentre la troupe smontava le apparecchiature. A un certo punto venne a chiamarmi l’usciere e mi disse: “Il Presidente le vuole parlare”. Rimasi sorpreso e rimarcai: “Il Presidente?”. Era la prima volta che avevo l’occasione di incontrare Moro. Entrai in prefettura, a Gorizia e dopo aver oltrepassato quattro porte vidi Moro venirmi incontro con le braccia aperte e dirmi, cito testualmente: “Grazie Tito”. Non mi aveva mai visto prima di allora ma si era informato sul mio lavoro e aveva assistito alla redazione del servizio sotto l’alluvione. Ecco, questo è il mio ricordo di un’Italia non litigiosa, fatta di persone straordinarie come Moro, Fanfani, Berlinguer.
Un grande talento accompagnato, possiamo dirlo, alla fortuna di trovarsi nel momento giusto al posto giusto.
Ci vuole molta fortuna, in questo lavoro come in tanti altri. E devo dire che io ne ho avuta. Intanto la fortuna di trovarmi davanti alla telescrivente nel momento in cui arrivò l’agenzia con scritto: “L’Unione Sovietica ha lanciato in orbita il primo satellite artificiale: si chiama Sputnik, che significa: compagno di viaggio”. Era il 1957 e da allora ho iniziato a occuparmi di spazio seguendo tutti i voli sovietici: 4 anni dopo, nel 1961, Jurij Gagarin. Nel 1963 la prima donna nello spazio, la cosmonauta Valentina Tereshkova e nel 1965 Alexei Leonov uscì dalla capsula Voschod 2 e fluttuò per 12 lunghissimi minuti nel vuoto cosmico. E tutti questi eventi, storici, li ho seguiti grazie allo squillo di una telescrivente che chiamava Tito Stagno che, guarda caso, stava lì, un attimo prima di andar via. Probabilmente, se fossi uscito prima dalla Rai, quel giorno, non sarei “arrivato” sulla Luna, chissà.
Ci vuole molta fortuna, in questo lavoro come in tanti altri. E devo dire che io ne ho avuta. Intanto la fortuna di trovarmi davanti alla telescrivente nel momento in cui arrivò l’agenzia con scritto: “L’Unione Sovietica ha lanciato in orbita il primo satellite artificiale: si chiama Sputnik, che significa: compagno di viaggio”.
L’allunaggio è stato il culmine di un’epoca di grandi conquiste. Dopo quel famoso trillo della telescrivente, ha seguito tutte le tappe della conquista dello spazio, direttamente dai luoghi che ne son stati protagonisti. In particolar modo, lei ha avuto occasione di vivere l’America di quegli anni, fatti di grande trepidazione. Che cosa vuol raccontarci di quel periodo?
Nel 1966, con la conclusione del programma Gemini, ho fatto un viaggio di studio in America, visitando tutti i centri e le basi spaziali. E’ stato allora che ho conosciuto Wernher Magnus Maximilian von Braun in Alabama, Rocco Petrone, grande italoamericano alla Nasa a Houston, e poi sono stato a New Orleans, dove venivano costruiti componenti dei razzi spaziali. E poi ho visitato gli stati che ospitavano le industrie come la General Electric che collaboravano allo sforzo spaziale, indicato da Kennedy negli anni della nuova frontiera e del coraggio. Fu proprio Kennedy, nel 1961, a dire davanti al Congresso che entro il decennio gli americani sarebbero andati e tornati dalla Luna. E così è stato.
Io già ai tempi di Gemini, ero certo che gli americani avrebbero vinto la corsa al nostro satellite; con il volo di Apollo 8, nel 1968, comandato da Frank Borman che riuscì a orbitare intorno alla Luna, non ebbi più dubbi: sarebbero stati gli americani a conquistarla.
Una curiosità, ancora…
Una te la levo subito: chi aveva ragione tra me e Ruggero Orlando? Ha toccato non ha toccato? Ci fu un equivoco, un fraintendimento sul verbo. Di fatto, avevamo ragione tutti e due: solo che io col verbo toccare intendevo proprio toccare e in effetti la navicella lunare aveva toccato il suolo della luna con le antenne, le due estremità che servivano a saggiare la pendenza del suolo lunare, importante per l’atterraggio e per la ripartenza del suolo lunare. Ruggero col verbo toccare intendeva atterrare quindi quando io ho detto toccare lui ha detto: “No, no, non ha toccato”, voleva dire che la navicella non era ancora atterrata. E in effetti aveva ragione, non era atterrata, ma aveva toccato e 40 secondi dopo aver saggiato la pendenza lunare, atterrò. Sono stati 40 secondi drammatici perché il carburante era quasi esaurito e Armostrong, che era ai comandi della navicella, non trovava un punto adatto all’atterraggio ma solo crateri e rocce finché non ha trovato uno spazio adatto, grande come una stanza…lì è atterrato e ha spento i motori. Il resto, lo sappiamo, è storia.
Ha, in Sardegna, un luogo del cuore?
Il nuorese. Io amo Cagliari, la considero una delle più belle città in Italia. Se però devo dire dove mi sento in Sardegna, ecco, quella zona è quella del Nuorese e della Barbagia dove, tra l’altro, conobbi Graziano Mesina proprio il giorno in cui venne arrestato come raccontato nelle pagine del libro di Giuseppe Fiori, “La società del malessere”.