Celestino Tabasso, classe 1971, è presidente dell’Associazione della Stampa Sarda. Ama simpaticamente definirsi un “sardo totale” in quanto nasce a Nuoro, cresce a Sassari, vive a Cagliari e ha origini paterne in Barbagia e materne in Gallura. Giornalista professionista dal 1998, inizia la sua carriera in un minuscolo settimanale sassarese (l’Ottopagine), si trasferisce poi al “Quotidiano di Sassari”, sinché il 1° gennaio del 2000 non approda all’ “Unione Sarda” dove ancora oggi lavora occupandosi di politica regionale. Nel 2012 ha lavorato nella redazione di “Un due tre Stella”, un programma di Sabina Guzzanti su La7, mentre nel 2009 ha condotto insieme a Roberta Mocco su RadioRai “La pecora sotto il letto – La domenica dei luoghi comuni”. Nel 2013 pubblica il suo primo libro “Forse non fa”, una guida surreale agli errori da non commettere a Cagliari. Con lui parleremo di informazione, libertà di stampa e dell’attuale situazione giornalistica in Italia e in Sardegna.
Partiamo:
1. L’Italia, secondo “Freedomhouse”, è al 72° posto per libertà d’informazione. Come mai, secondo lei, è così difficile fare informazione nel nostro Paese? Cosa pensa in merito all’attuale situazione giornalistica italiana?
Come sappiamo tutti, per quindici degli ultimi vent’anni il potere politico italiano è stato nelle mani di Silvio Berlusconi, la cui famiglia controlla tre tv, un giornale e molti periodici. La leadership politica, come è evidente, gli ha garantito un’enorme capacità di influenza anche sulle reti televisive pubbliche: questo strapotere ha pesato molto nel farci classificare da Freedomhouse come “Paese semilibero” anziché “libero” come, per esempio, le democrazie scandinave. Agli italiani, che ne sentono parlare da anni e anni, il conflitto di interessi sembra una formula stantia e noiosetta, ma agli occhi degli osservatori stranieri invece resta quel che è davvero: un macigno, un enorme problema irrisolto che col passare del tempo non è diventato meno rilevante, ma anzi è cresciuto proprio per la sua cronicità. Detto questo, in realtà da qualche tempo abbiamo recuperato alcune posizioni nel ranking internazionale della libertà di stampa, soprattutto per via dell’imminente riforma delle norme sulla diffamazione che non prevedono più la possibilità di incarcerare il giornalista. Eppure la nuova normativa - con l’obbligo quasi acritico di rettifica, senza possibilità per la redazione di controbattere alle tesi di chi si reputa diffamato, e con le sanzioni pecuniarie pesantissime che prevede - renderà la libertà di informazione più esile, non certo più robusta. E questo mi preoccupa molto più di qualunque classifica internazionale, pur interessante e rispettabile.
2. Cosa differenzia la realtà giornalistica italiana da quella sarda? Esistono alcune e sostanziali differenze oppure la situazione è pressoché la medesima?
La Sardegna è una delle regioni italiane più colpite dalla crisi economica: ne consegue che le aziende editoriali sono più fragili perché hanno una raccolta pubblicitaria meno abbondante, e quindi molte testate hanno dovuto chiudere i battenti o comunque ridimensionare gli organici. E questo è un brutto guaio dal punto di vista dei posti di lavoro, evidentemente, ma anche e soprattutto sul piano del pluralismo. Quanto alle altre specificità isolane, diciamo che i sardi restano forti lettori di quotidiani, o comunque più tenaci rispetto ad altre aree italiane e in particolare rispetto al Meridione. Per chiudere con una nota positiva (almeno ai miei occhi) i giornalisti sardi hanno una percentuale di iscritti al nostro sindacato unitario, la Fnsi, e una partecipazione alla vita di categoria di gran lunga superiori rispetto a molte altre regioni. Detto questo, se proprio devo parlare di mondi giornalistici diversi e lontani mi viene da dire che fra quello sardo e quello del resto d’Italia c’è molta meno differenza di quanta ce ne sia fra la Sardegna giornalistica di oggi e quella di venti-trent’anni anni fa.
3. A suo avviso, le informazioni che arrivano a noi, comunque filtrate dai mezzi di comunicazione, corrispondono sempre alla verità o talvolta esistono delle dinamiche che travalicano quelle della mera cronaca?
Non soltanto un giornalista, ma qualunque essere umano filtra le informazioni. Facciamo un esempio: un uomo torna a casa e dice alla moglie: “Sai che mentre tornavo a casa ho incontrato zio Peppino?”. Sembra una comunicazione neutra e invece si tratta di un’informazione filtrata: se avesse voluto attenersi ai puri fatti, quell’uomo avrebbe dovuto dire qualcosa di prolisso e notarile. Per esempio: “Ero in ufficio, ho spento il computer, ho indossato il soprabito, ho preso l’ascensore, sono sceso al pianterreno, sono uscito dal portone, ho fatto trenta passi sul marciapiede, ho incontrato il fratello di mia madre, l’ho salutato, lui ha salutato me, un’auto si è fermata al semaforo rosso a pochi metri da noi…” e via così, finché la moglie non smette di ascoltarlo oppure si mette a piangere per la noia. Quindi il nostro uomo che rincasa all’ora di pranzo in realtà che fa? Prende la massa amorfa di tutti gli accadimenti che ha vissuto durante la mattinata, seleziona un segmento cronologico, lo riassume e lo comunica. Perché sceglie proprio quel segmento? Perché è significativo. Ovvero: alla moglie non importa un fico secco che lui abbia preso l’ascensore, mentre le interessa che abbia incontrato lo zio Peppino (o magari neanche di quello le importa nulla, ma questa è un’altra storia e rischiamo di infilarci in un’intricata storia di antipatie familiari). Il giornalista – sardo, ligure o lappone non conta - fa la stessa cosa: fra i mille accadimenti che le agenzie di stampa, i siti internet, le sue conoscenze personali e le fonti più o meno istituzionali gli propongono, sceglie ciò che gli pare significativo. E sceglie in base alla sua sensibilità professionale, alla sua formazione politica, alla sua appartenenza territoriale, al tipo di lettori ai quali si rivolge. L’importante è che non ometta elementi significativi e che il suo punto di vista sia percepibile in modo onesto. Facciamo un esempio che non coinvolga lo zio Peppino: se il Consiglio dei ministri approva lo “Sblocca Italia” un giornalista del Sole24Ore sarà portato a evidenziare gli effetti del decreto sull’economia nazionale, mentre per un giornalista sardo sarà naturale sottolineare che quel decreto potrà dare il via libera alle trivellazioni dei petrolieri che tanto allarmano la nostra opinione pubblica isolana. Chi dei due dice la verità? Entrambi. Chi dei due “racconta solo i fatti”? Nessuno. L’importante è che la scelta venga fatta in modo trasparente e leale verso il lettore.
4. A chi risponde il giornalista in merito al proprio operato? A se stesso, a chi gli commissiona il pezzo, oppure ai lettori?
Se il giornalista non risponde alla propria coscienza, non può essere leale nei confronti del lettore e nemmeno verso il suo datore di lavoro. E aggiungo che quando un giornalista è abituato ad agire secondo coscienza, è molto difficile che un eventuale datore di lavoro spregiudicato gli chieda di violare i suoi obblighi morali e professionali.
5. Qual è l’errore peggiore che possa commettere un giornalista?
Può commetterne molti e gravi. Può incappare in un errore tecnico, e per esempio scrivere una notizia senza averla verificata, oppure in un errore deontologico, ed enfatizzare o sminuire una notizia per il proprio tornaconto politico o economico o comunque personale. Ma probabilmente l’errore più insidioso e meno evidente è l’autocensura. Ho una notizia, penso di averla solo io e so che pubblicarla significherebbe infastidire un potente oppure una persona a cui sono legato: la lascio nel cassetto e buonanotte. Fra tutte, direi che questa è la buccia di banana più scivolosa.
6. Come è nata, in lei, la passione per il giornalismo? Quali figure hanno segnato il suo percorso professionale ed il suo modo di scrivere.
Sono cresciuto in una casa a due piani: al pianterreno stavano miei nonni materni, noi abitavamo al primo piano. In un appartamento trovavo La Repubblica con i pezzi di Scalfari, Bocca e del Pansa di quando ero ragazzo, mentre nell’altro c’era Il Giornale di Montanelli con i suoi corsivetti, i rapidissimi e affilati “Controcorrente”. E poi il sabato sulla Stampa – che arrivava a casa soprattutto per via di Tuttolibri - ogni tanto trovavo un’opinione di Fruttero&Lucentini. Diciamo che sarebbe stato innaturale non appassionarmi alla carta stampata. Quando poi ho cominciato a scrivere, ho avuto la fortuna di lavorare con colleghi molto bravi e generosi, dei veri fratelli maggiori dal punto di vista professionale. Se dovessi fare almeno un paio di nomi, direi che ho sempre ammirato – con un pizzico di invidia dichiarata – l’elegante umanità di Maria Paola Masala e la classe sfrontata di Giorgio Pisano.
7. Cosa pensa del finanziamento pubblico ai giornali?
La nostra Repubblica spende cifre astronomiche per aerei da guerra controversi come gli F35 e opere pubbliche come il Mose: se investe anche per far scricchiolare meno il sistema informativo, che è un pilastro della democrazia, non mi turbo. Detto questo, è perverso coprire con soldi pubblici percentuali elevate del bilancio di un giornale, o tenerne artificialmente in vita alcuni che da tempo hanno smesso di fare cronaca e inchieste e campano solo in virtù e in funzione dei finanziamenti statali.
8. L’avvento di internet e poi dei social network ha inevitabilmente mutato il modo di fare informazione. Che risvolti etici implica il “citizen journalism” per la professione del giornalista?
Può stimolare il giornalismo tradizionale, anche quello online: bacchettarlo quando è pigro e indicargli temi che interessano l’opinione pubblica e invece nelle redazioni non vengono capiti o percepiti nelle loro dimensioni. Ma per quanto questo circuito virtuoso possa essere utiler, mi sembra anche più rilevante – e molto angosciosa – la capacità della rete in genere e dei social network in particolare di diffondere bufale e incoraggiare un approccio emotivo, aggressivo all’informazione. In fondo una delle differenze principali fra un giornalista e un “leone da tastiera” che ruggisce dal proprio profilo social è questa: il giornalista ci mette la faccia e la firma, sapendo che se perde credibilità è professionalmente morto, e tratta notizie verificate mettendo da parte le emozioni. Il commentatore furibondo, o chi in malafede distorce le notizie, non segue regole professionali e non si assume responsabilità. E purtroppo spesso il cibo avariato ma molto speziato sul mercato funziona meglio del biologico certificato.
9. La carta stampata può ancora competere nel mondo dell'informazione o il web la sostituirà del tutto fra pochi anni?
Penso che abbia ancora strada e futuro davanti a sé. La carta stampata ha ricavi molto superiori al web, e quindi può permettersi redazioni più numerose che coprono capillarmente il territorio: questo, soprattutto a livello locale, la rende almeno teoricamente ancora competitiva, seppure in declino. Naturalmente ci sono mille fattori che entreranno e già stanno entrando in gioco, a cominciare dall’accuratezza e dalla qualità dell’informazione proposta ai lettori per continuare con la capacità di analisi dei fatti e degli scenari. Diciamo che nel mondo ideale il web ti dà la notizia, la tv te la mostra e il giornale te la spiega. Ma il tempo passa veloce e scopriremo presto quanto il nostro mondo di domani e dopodomani assomigli a quello ideale.
10. Un consiglio che si sente di dare agli studenti che tentano di seguire le sue orme nel mondo del giornalismo.
Di non stare troppo ad ascoltare i consigli.
Simone Tatti
Photo: Gianfranco Manai