Saggista e ricercatore, Aldo Aledda, congiuntamente a una intensa attività lavorativa all'interno della pubblica amministrazione (oltre 30 anni), ha portato avanti una intensa attività di studio, di ricerca e di impegno giornalistico, integrata da occasionali insegnamenti universitari, che ha portato alla pubblicazione, oltre che di numerosi saggi e articoli, di 15 libri soprattutto in materia di storia e sociologia dello sport e di flussi migratori e uno sulla pubblica amministrazione (La sfinge di carta, 1994). Tra i più significativi si ricordano I sardi nel mondo (1991); De Coubertin, Addio! (1998); I cattolici e la rinascita dello sport in Italia (1998, Targa premio “Bancarella Sport”); Vincere è tutto. Sport in USA dal Big Game al Big Business (2000, finalista premio “Bancarella Sport”, 2° premio letterario CONI); Sport. Storia politica e sociale (2002, finalista premio “Bancarella Sport” e 1° premio letterario CONI; The Primacy of Ethics. Also in Sport? (2011) e il romanzo storico Donne d’assalto (2010).
Il 2013 rappresenta per Aledda l'anno di edizione di un corposo lavoro dedicato alle dinamiche della pubblica amministrazione in Italia (Interna Corporis – Anatomia di una pubblica amministrazione. Perchè in Italia si governa male e come rimediare) che parte dalla Sardegna per analizzare, in maniera dettagliata, i vari aspetti della burocrazia.
Con lui andremo a ripercorrere le tematiche affrontate nel suo ultimo saggio, "Interna Corporis" in particolar modo andando ad analizzare la situazione burocratico-amministrativa della Sardegna.
Dopo saggi sullo sport, l’emigrazione, la cultura… a distanza di dieci anni da “La sfinge di carta” ne esce uno più organico sulla burocrazia e la pubblica amministrazione. Una scelta maturata nel tempo che arriva in un momento storico in cui sembra impellente la necessità di uno svecchiamento. Da cosa partire per avviare tale processo e in che modo questo può coinvolgere la Sardegna?
Il fatto che questo lavoro parta proprio dalla Sardegna significa che è proprio la Sardegna il mio principale oggetto delle attenzioni e che a essa, prima che alle altre pubbliche amministrazioni, sono rivolti gli interessi “riformatori” dell’autore…
Già, perché proprio partire dalla Sardegna, in particolare dalla Regione, per interpretare tutta l’amministrazione pubblica italiana. Non è la Sardegna un po’ troppo periferica per fungere da modello?
In realtà la Sardegna è proprio il giusto caso di studio perché è la classica realtà socio-economica mediana che si può prestare per studiare e dedurre anche le altre realtà sul territorio nazionale. Così ho fatto, per esempio, in un precedente studio sul comportamento sportivo dei giovani nella provincia di Cagliari, con l’Università Tor Vergata di Roma, da cui ho dedotto tutto il funzionamento sportivo del Paese riguardo a quella fascia di età. Poi si è scoperto che Cagliari era la nona provincia italiana per qualità della pratica sportiva. Infatti, le indagini statistiche nei più svariati campi collocano la Sardegna non solo al di sopra di tutte le regioni meridionali (a parte i dati occupazionali, per i quali si soffre più delle altre regioni dell’insularità) ma, per certi indicatori, la pongono addirittura tra le prime in Italia (qualità della vita, sport, sicurezza, trasporti urbani, ecologia, ecc.). Se non siamo schiavi dei parametri economici, che modernamente fanno passare in sottordine tutti gli altri, è solo il complesso d’inferiorità che provano certi sardi e la rassegnazione con la quale trasformano la relativa (e oggi inesistente) distanza geografica della Sardegna in marginalità rispetto del resto del mondo, a suggerire letture riduttive della nostra realtà. L’isola non è una curiosità antropologica che si visita turisticamente come una tribù amazzonica, con costumi e persone particolari per cui si presenta come un luogo mitico in cui si è fermato il tempo. La Sardegna, come tante altre realtà del mondo occidentale (per inciso, non dimentichiamo che fa parte del “primo “ mondo), per certi versi può essere considerata periferica (mercato del lavoro, trasporti, sviluppo scientifico, ecc.) mentre per altri è assolutamente centrale (turismo, industria bellica, informatica, agroalimentare, ecc.). Tornando al discorso della pubblica amministrazione, nel libro spiego comunque le ragioni per le quali la Sardegna, nell’Italia – che non a caso nasce dal Regno di Sardegna– è una realtà paradigmatica e funge da modello.
Quali sono, a oggi, i maggiori handicap in cui incorre la pubblica amministrazione?
Per primo direi l’invecchiamento del personale, comune peraltro a tutte le amministrazioni pubbliche del mondo, e prima ragione del conservatorismo e della lentezza di cui queste sono accusate dappertutto. In Italia e in Sardegna, poi, in particolare, incide il basso profilo della classe politica, che – non dimentichiamolo mai – è quella che plasma le strutture amministrative, le dirige e le governa. Ma, soprattutto, direi che il pubblico è il regno dello spreco, conseguenza di un costume, a sua volta conseguenza delle leggi (si pensi a quelle degli appalti che puntando al risparmio creano solo disservizi e realizzazioni scadenti), che mentre stimola l’efficienza ignora l’efficacia, giacché quando si è efficienti non sempre si è efficaci (le ingiustizie della burocrazia, per esempio, provengono molte volte proprio da un eccesso di efficienza).
Figli che devono necessariamente fare il lavoro dei genitori. Magari nel pubblico. Questo discorso torna spesso all’interno del saggio. Non si tratta di un tema superato, dunque?
Lo segnalo appunto come una realtà, ma nello stesso tempo anche come una patologia. Che comunque tocca quasi tutte le professioni, non solo i notai e i farmacisti. Guardate, per esempio, il fenomeno dei cosiddetti “figli d’arte” non solo in ambito artistico, ma anche politico. La verità è che se grazie a certi legami dinastici si può creare un clima favorevole allo svolgimento di una professione, ciò funziona solo nel senso della conservazione di valori, prassi e mentalità, che sono pure positive nella misura in cui assicurano stabilità al sistema. Tuttavia, poiché il più delle volte la conservazione dei comportamenti si riverbera sulle mentalità, finisce per andare in senso contrario all’innovazione. La pubblica amministrazione si avvantaggerebbe, per esempio, se vi fosse una maggiore circolazione con i settori privati, e viceversa. O se, come si fa in altre parti del mondo, s’inserissero nell’amministrazione rappresentanti di strati sociali in settori più attigui ai loro problemi – penso per esempio agli immigrati –, in modo da interfacciarsi meglio con i compatrioti rendendo così l’amministrazione più “efficace”. Oppure, inserendo più donne nei ranghi direttivi dei servizi dell’assistenza sociale e della sanità, sulla base del fatto che il loro coinvolgimento e la loro sensibilità in questo campo sono superiori a quelle degli uomini; invece questi settori, pur essendo caratterizzati nei quadri medio bassi da una prevalente presenza femminile, questa si rivela del tutto irrilevante agli alti livelli dirigenziali, dove pure si adottano le strategie e le decisioni.
Lo “Stato che non controlla” come lo definisce nel suo lavoro, rappresenta uno dei nodi ancora da sciogliere, e qui probabilmente sta il bandolo della matassa. Tale situazione è recidiva per quanto riguarda il sociale. Vogliamo analizzarla meglio e localizzarla nel contesto sardo?
Gran parte degli interventi della Regione, e dello Stato in genere, sono “vuoti a perdere”. Per esempio, si danno soldi agli imprenditori e non si controlla come li utilizzano, egualmente si corrisponde agli operai la cassa integrazione e non ci si accerta se per caso i beneficiari non facciano un secondo lavoro; un caso recente sono proprio i “legislatori”, ossia i consiglieri regionali che utilizzavano i contributi elettorali per gli affari loro senza alcun tipo di controllo. Poteva, quindi, il legislatore preoccuparsi che gli interventi della pubblica amministrazione fossero controllati e monitorati? L’assenza di controlli è dimostrata dal bassissimo numero di persone che, in tutti i settori della pubblica amministrazione, sono preposte a controllare se i soldi siano stai spesi per le finalità giuste rispetto alla stragrande maggioranza di impiegati e funzionari che sovrintendono all’erogazione di soldi e altri benefici (si pensi per esempio che l’ufficio ispettivo della Regione Sardegna, a fronte di circa 2600 impiegati, è composto di appena da una decina di persone). Adesso che lo stato è costretto a raschiare il fondo del barile e si è scatenato a colpire sprechi, malversazioni, peculato, corruzione, viene fuori tutto il limite di codesta ideologia dell’assenza di controllo che si fonda sull’altra, non meno dannosa, dello stato grande elemosiniere. Per quanto riguarda il contesto sardo, devo dire che la pubblica amministrazione è in genere abbastanza pulita. Il sardo, secondo me, ha un grande senso della giustizia e dell’imparzialità, anche se questi elementi sono un po’ alterati da altri, come l’eccessivo peso che si dà ai rapporti di amicizia e la preferenza per le cerchie familiari, tutti fattori che creano ingiustizia e stanno alla base della promozione degli incompetenti. La corruzione piuttosto si annida nelle appendici della politica e nei comitati d’affari che si muovono tra questa e determinate cerchie imprenditoriali, professionali, immobiliari e associative – i cui terminali sono situati soprattutto nel capoluogo isolano – le cui ramificazioni arrivano nelle stanze del potere e anche in quelle di certa magistratura. Ragione per cui tutte le inchieste e le indagini scalfiscono appena i fenomeni corruttivi, ma non arrivano mai al cuore del sistema che li governa. Tornando ai burocrati, solo chi vive nelle vicinanze di queste stanze in cui aleggia l’aria mefitica della corruzione, sa che è a rischio d’inquinamento.
L’esercito dei dipendenti pubblici è una caratteristica squisitamente italiana. Tagliare senza creare disagio sociale è possibile? Perché la connotazione di “dipendente” viene intesa negativamente?
Prima di tutto va detto che l’Italia in quanto a quantità di impiegati pubblici sta nei parametri europei e, in genere, in quelli del mondo occidentale: 1 impiegato per 15 abitanti, rapporto comunque sempre un po’ troppo elevato. Il problema non è dato dal taglio del personale, ma dalla relazione che ha il loro impiego negli adempimenti e nelle procedure. In altri termini, se taglio prima il personale e non lo procedure, rischio di ingolfare e intasare l’amministrazione per mancanza di personale; viceversa, se taglio le procedure e non ristrutturo il personale rischio di avere persone a spasso che non hanno nulla da fare. Poiché in Italia le sedi in cui si decidono queste cose non s’incontrano mai, si assiste sempre a questa distorsione. Da qui la schizofrenia, le proteste, i lamenti, ecc. Non vi è da temere alcuna emergenza sociale, secondo me, se si fanno le cose gradualmente e responsabilmente, ossia se si incomincia a ridurre in maniera indolore e a qualificare i servizi pubblici. Per esempio si potrebbe iniziare a dare un orientamento ai giovani: smettete di cercare impieghi pubblici poiché la fortuna di questi è retaggio di un’epoca storica in cui gli stati occidentali godevano di grande floridezza economica e perciò divennero interventisti. Oggi che gli stati, dal punto di vista finanziario, sono tecnicamente falliti è ragionevole prevedere a) che ridurranno l’impegno in molti settori della società (soprattutto economia e cultura) e b) che avendo meno soldi, retribuiranno di meno i dipendenti. D’altronde non è legge divina che lo stato debba permeare in una misura come quella attuale la società. Se oggi il rapporto impiegato cittadino è uno a quindici, un secolo fa era di uno a cinquecento o addirittura mille. Dopo di ché va detto che il termine “esercito” è abbastanza azzeccato, non solo perché in Italia vi sono tre milioni e mezzo di impiegati pubblici, ma anche perché si riallaccia alle origini miliari dell’amministrazione. Viceversa quello di dipendente si rifà alla limitata capacità di agire dei soggetti che lavorano dentro le amministrazioni ai quali, con pretesti vari, sono negati anche i diritti costituzionalmente garantiti, come quelli di parola e di espressione e, in certi casi, è limitata anche la libertà di agire e di muoversi, mentre all’interno delle strutture (tutte derivanti dallo stato democratico) e su tutto il suo funzionamento è bandito nel modo più assoluto il termine “democrazia” (da qui il grande fastidio con cui sono percepite le organizzazioni sindacali che “pretendono” di discutere di organizzazione col potere amministrativo). Perciò il termine “dipendente” è calzante con l’attuale situazione nella misura in cui si riferisce a un soggetto che è stato trasformato ed è concepito come un essere immaturo, incapace di pensare e di agire, cui ogni momento occorre dirgli cosa deve fare, quando deve entrare, quando può uscire. Infantilismo, opportunismo, servilismo, paternalismo, desiderio di aggirare le norme e arroganza – che poi si proietta all’esterno e all’interno si trasforma in aggressività per lo più passiva. Tutti questi elementi, messi insieme, contribuiscono pertanto a dare un’immagine squalificata del pubblico “dipendente”.
Cosa possiamo imparare, in termini di gestione della pubblica amministrazione dagli Stati esteri e cosa, invece, dobbiamo assolutamente evitare?
Tutte le amministrazioni pubbliche nel mondo occidentale si assomigliano: in USA la polemica contro gli stipendi, la scarsa voglia di lavorare e le pensioni dei civil servant è quotidiana, mentre in Olanda corre la barzelletta che quando un impiegato pubblico muore, nella tomba si scrive: “che continui a riposare in pace”. Tutte, poi, si copiano nel meglio e nel peggio. Il problema sta nel non prendere tutto di sana pianta, ma rispettare le caratteristiche storiche di ciascuno stato. Voglio dire è inutile sospirare l’efficienza della burocrazia francese e cercare di imitarne il centralismo: quella si è sviluppata in funzione di Parigi centro della Francia e di uno stato centralizzato che ruotava intorno a essa fin dall’epoca di Luigi XIV; viceversa l’Italia sorge da una realtà regionale e comunale. Su queste evoluzioni storiche vanno costruite le burocrazie che, non dimentichiamo, sono solo funzionali alla realizzazione degli obiettivi di governo e non di ideologie organizzative astratte.
Nel saggio ribadisce in più passaggi che le pubbliche amministrazioni, a differenza di quanto appaiano nell’immaginario comune, sono sistemi chiusi mentre dovrebbero essere aperti e interagire con la società circostante. Perché vengono ritenuti tali e come si potrebbe invertire questa tendenza?
La ragione è che le pubbliche amministrazioni stanno sempre un passo dietro la società che in qualche misura dovrebbero amministrare, perciò le loro modificazioni strutturali e organizzative avvengono il più delle volte in direzioni che ormai sono state abbandonate dalla società. I sistemi chiusi, gerarchici, verticali e scarsamente flessibili sono il retaggio di periodi in cui gli stati avevano meno abitanti, le funzioni erano ridotte e tutto poteva essere controllato da alcuni centri. La complessità della società attuale impone che le pubbliche amministrazioni siano pronte a innovarsi e modificarsi in continuazione; non solo, ma che siano anche pronte a interagire e a recepire stimoli e indicazioni dalla società che vorrebbero amministrare. La rigidità organizzativa sfiora il ridicolo nelle amministrazioni pubbliche, che sono impacciate e impotenti davanti ai fenomeni naturali sempre più gravi, per esempio. Molti uffici dinamici, altro esempio, sono organizzati come servizi di ragioneria, come può capitare per gli uffici stampa, uffici legali, relazioni col pubblico, ecc. Il tutto oi è diretto da burocrati invece che da specialisti del ramo. Oppure sono accorpati con altri settori che non hanno niente a che fare con quelli, per cui facilmente capita che un responsabile di un ufficio sia diretto da un incompetente in quel ramo in base al principio della gerarchia e della verticalità. Oggi, per esempio, con il rivoluzionario inserimento delle procedure informatiche nelle amministrazioni e il conseguente salto organizzativo e di mentalità che ne è derivato, si assiste al caso paradossale operatori e utilizzatori di queste tecnologia siano diretti da una vecchia classe dirigente che a mala pena sa leggere la posta elettronica; è come se in guerra a dirigere una portaerei fosse messo un ammiraglio che per tutta la vita ha comandato un galeone. L’esemplificazione potrebbe continuare all’infinito. Perciò disegnare e adattare le strutture in funzione delle mutate esigenze sociali e ridurre la fissità dei ruoli e delle carriere – funzionali a un certo garantismo che oggi ha sempre meno ragione di esistere – può essere il primo passo in quella direzione. L’altro sarebbe cercare costantemente di mettere le persone giuste al posto giusto, e non il contrario come capita il più delle volte oggi. Perciò da qualche decennio gli analisti della pubblica amministrazione parlano di sostituire la burocrazia con “adhocrazia” (una burocrazia ad hoc), ossia flessibile, orizzontale e capace di agire caso per caso.
Perché, di fatto, in Italia si governa male? E in Sardegna?
La prima ragione è che non si vuole affrontare seriamente il problema della riforma dell’amministrazione pubblica. Fintanto che le riforme sono conseguenza del braccio di ferro tra amministrazione e forze sociali e che i disegni organizzativi sono tratteggiati da parlamentari distratti o poco interessati affiancati da consulenti e professori che vivono fuori del sistema amministrativo, il risultati saranno sempre superficiali e di facciata; oppure propagandistici, come furono di quel ministro che si prefiggeva di acchiappare immaginari “fannulloni”, nulla comprendendo e non essendo al corrente dei più seri studi di sociologia e psicologia dell’organizzazione che attribuisce solo a incapacità manageriali e a falle del sistema il fatto che tutta una serie di persone non riesca a svolgere adeguatamente il loro compito. Il secondo è il problema etico. Si potrà insistere quanto si vuole sull’ammodernamento dell’amministrazione, si potranno inventare le pene più severe per chi scantona, ma se non si afferma un’etica nel lavoro pubblico, basarsi solo sulle retribuzioni e sulla meritocrazia non risolve il problema del buon funzionamento. Faccio un esempio. Oggi, alla ricerca come al solito di un capro espiatorio, si indica l’amministrazione pubblica come responsabile delle difficoltà economiche del paese. Ebbene l’Italia è uscita dalla condizione di terzo mondo nel Dopoguerra ed è diventata la quarta potenza industriale negli anni Ottanta nonostante avesse ancora la vecchia burocrazia che non aveva i ritmi, gli obblighi e la razionalità che le hanno impresso le leggi riformatrici intervenute ad anni Novanta inoltrati (sui procedimenti, sugli appalti, legge comunale e provinciale, leggi Bassanini, ecc.), guarda caso in coincidenza con il lento declino che ha intrapreso il nostro paese dal punto di vista economico. Questo che cosa vuol dire, a prescindere dal fatto che non esiste una relazione diretta tra sviluppo economico ed efficienza burocratica? Ciò significa che non esiste frusta manageriale, incentivo economico o legge che persegua severamente il funzionario pubblico che non adempie al proprio dovere che sia in grado di far funzionare la pubblica amministrazione quanto l’esistenza di un senso etico. Fu il senso etico, nel Dopoguerra fin quasi alla fine del secolo scorso, che impose al vecchio ragioniere o al capo ufficio meticoloso – nonostante le norme farraginose, le procedure lunghissime, le gerarchie rigide – di impegnarsi al massimo delle loro forze perché l’imprenditore potesse avere le sue autorizzazioni o il costruttore le sue licenze, giacché comprendevano che da ciò traeva vantaggio tutto il paese. E il tutto avveniva senza incentivi, premi di produttività, promozioni e quant’altro si è cercato d’introdurre successivamente per stimolare il rendimento. Le leggi possono contenere principi ispirati all’etica, ma se questa non ha un rimbombo all’interno dell’operatore pubblico, sarà tutto vano. E la Sardegna, a questo sistema non ha fatto eccezione.
Lei è anche un attento studioso delle dinamiche migratorie e ha una conoscenza attenta, tra le altre, delle dinamiche dei circoli sardi presenti nel Mondo. Li ritiene una carta utile per poter valorizzare cultura e turismo in Sardegna? In che modo si potrebbe valorizzare la loro presenza sul territorio estero?
Questa è proprio una domanda fuori sacco. Però possiamo allacciarla al discorso che stiamo svolgendo nella misura in cui il sistema dell’associazionismo sardo nel mondo si è legato indissolubilmente alla Regione ed è dipeso del tutto dai sovvenzionamenti pubblici. Una funzione può essere recuperata, a mio avviso, in due fasi. La prima, sganciandosi dal sistema pubblico, che tra l’altro non è più in grado di garantire la sussistenza di queste associazioni. La seconda, cercando una propria strada per essere di più Sardegna nel mondo e rappresentare e difendere gli interessi della propria terra d’origine. Ciò significa che occorre prima di tutto impegnarsi a creare un’identità sarda “deterritorializzata”, ossia che prescinda dall’essere nati o residenti in Sardegna ma richieda solo il riconoscimento e l’adesione ai valori della terra d’origine. Qui valgono le cose dette a proposito dell’organizzazione amministrativa. Ciascun circolo sardo opera in una realtà diversa. A quella deve adattare i suoi scopi, i suoi mezzi e le sue azioni. Essere a Cinisello Balsamo o Civitavecchia è diverso che essere a Londra o Parigi, come stare a New York lo è rispetto a Buenos Aires. Per tutti si dovrebbe individuare e costruire – qui si con la Regione – una finalità e una missione specifica accompagnata da uno specifico progetto, anche finanziario. Il sistema attuale, appena rivisto e corretto alla fine degli anni Ottanta e primi Novanta, se andava bene in quel periodo (piramidale, gerarchico, Regione dipendente, com’era) oggi è superato. Come ho detto a proposito delle pubbliche amministrazioni anche le altre organizzazioni, per sopravvivere, devono continuamente modificarsi e non perdere mai di vista l’ evoluzione dei tempi.
Che consigli darebbe a un neolaureato che si affaccia nel mondo del lavoro?
L’ho già detto prima per la pubblica amministrazione, s’incominci a scartare questa strada. I tempi di crisi servono a cambiare. Cambiare direzione, abbandonare strade vecchie e modi di pensare superati. Secondo me i giovani laureati devono essere consapevoli che dai periodi di crisi esce solo chi ha nuove idee e capisce in quale direzione di marcia ha deciso di immettersi la società. L’importante è sganciarsi dai condizionamenti e dal modo di pensare dei genitori, parenti e altre figure che stanno intorno, se non sono consapevoli dei cambiamenti. Convincersi che se c’è crisi questa è prodotta soprattutto perché si continua a pensare alla “vecchia maniera”. I giovani hanno una grande fortuna, quella dell’età, che significa anche freschezza mentale. Devono usare al massimo questa capacità per trovare la propria strada nella vita.
Mariella Cortes