Il regista Riccardo Barracu ha appena presentato alla Berlinale il suo cortometraggio “Resistance”. La coproduzione franco-svedese-tedesca farebbe pensare ad un prodotto della nuova Europa. Il corto, in realtà, ci fa ripiombare in mezzo ad una storia che non vuole concludersi... “Iniziò allora l'oscurità al neon”: si entrava così nella contemporaneità per Sàndor Màrai.
La coscienza dell'autore ungherese vedeva un'unica luce, accesa negli anni Trenta, ad illuminare come un faro nefasto tutta la modernità. E con l'accensione di un neon si apre il corto di Riccardo Barracu, che con questo espediente estrae la resistenza dal tabernacolo della storicizzazione. Resistenza è infatti la condizione minima di esistenza nel contemporaneo, marchio di continuità che percorre tutto il secolo scorso fino all'astoricità del quotidiano, ci ricorda nella sua dichiarazione d'intenti il regista. L'accensione della luce introduce in un panorama di grigi, sferzato a cadenza regolare dai colori sgranati e saturi delle scene “doppie”. Ai tre attori berlinesi, il regista ha infatti giustapposto tre altri volti, totalmente diversi per fisionomia e mimica, che ripetono i gesti dei primi in maniera quasi parossistica. Tre sono i ruoli fondamentali della pellicola: la vittima, il carnefice, un testimone “ex machina”, figure agite da gesti fissi e parlate dagli scarni dialoghi (scritti dallo svedese Emilio El-Lauren), che lasciano poco scampo all'interpretazione.
• That’s not relevant.The job is the cause.
• And the cause is oppression?
• Yes. • What does it mean?
• That's not relevant. Recita uno dei passaggi.
Né vi è scampo alle rigide strutture che intercorrono fra questa triade: non è una via di uscita il cambio di colore, né lo è il cambio della fisionomia. Tanto meno lo sono i gesti: neanche nell'atto di violenza si arriva mai ad un contatto fra vittima e carnefice. Ed anche l'ultimo estremo tentativo di infrangere la barriera di vetro tra il meccanismo coercitivo ed una supposta normalità non può che fallire. L'invalicabilità di queste strutture è rimarcata dalla composizione della scena, il cui carattere pittorico è esaltato con dalla fotografia di Virginia Vannucchi. Abbiamo detto dei colori, del loro carattere metallico e polveroso. Ma è propriamente nell'architettura delle inquadrature che si rivela la maestria pittorica. Ogni angolatura, ogni elemento architettonico, ogni dettaglio anatomico è parte di un ferreo equilibrio, in cui lo sguardo dello spettatore rimane intrappolato. Se dunque l'incedere dei rumori iniziali, la ritmica distorta di uno scacciapensieri, poteva suggerire una certa ironia, ancora rintracciabile nel tono beckettiano di alcune battute e nella inevitabilità dei gesti dei protagonisti, l'oscurità si fa più fitta dopo pochi minuti. Ed è quella, inconfondibile, di un secolo che non vuole passare.
[di Daniel Abbruzzese]