La medicina popolare magico - superstiziosa era diffusa in tutta la Sardegna e ancora oggi alcune pratiche vengono utilizzate e tramandate. Comprendeva diverse “terapie” e “trattamenti”, alcuni più pratici, come le fumigazioni contro l’infermità, unguenti per il mal di ossa, preparati per l’inappetenza, altre più spirituali, come la medicina dell’occhio. Questi riti non avevano lo scopo di procurare danno a qualcuno, ma di alleviare le sofferenze della vita quotidiana in un mondo nel quale la medicina e la scienza erano molto lontane e l’arte della cura si basava sulla conoscenza delle erbe e della natura. Si trattava di quella che viene definita “magia bianca”.

Le fatture invece rientravano nella categoria della “magia nera” e avevano lo scopo di ferire e di causare la morte di un altro individuo: i malefici, secondo la credenza popolare, provocavano atroci ed inspiegabili sofferenze. Un maleficio poteva essere generato semplicemente volendo fortemente il male di qualcuno, anche solo per liti e controversie. Nelle piccole comunità, come in città, si riteneva che il malocchio, portatore di conseguenze meno gravi della fattura, si manifestasse, non solo con la sfortuna, ma anche con malesseri fisici generali (mal di testa, spossatezza) e fosse dovuto allo sguardo intenso che possedevano alcuni individui e che influenzava negativamente persone e animali.

S’ogu liau”, in sardo, poteva anche  scaturire dal desiderio, dall’ammirazione, dall’invidia ed essere quindi involontario. Bastava un complimento. Da qui la tradizione, mantenuta fino ai giorni nostri in alcune realtà, di “toccare” la persona lodata in segno di affetto e scaramanzia, a testimoniare la bontà dell’apprezzamento fatto. Lo stato di malessere veniva quindi considerato e curato come una malattia per la quale era necessaria una “medicina”: la “medicina dell’occhio” (in algherese “la medecina de l’ull”).

Questa pratica impiegata per togliere il malocchio veniva fatta utilizzando diverse procedure ed elementi, che variavano di paese in paese, con l’uso di acqua, olio, grano, sale, ossa, monete e preghiere, ed era accompagnata sempre da gesti formali ritmici, cantilenati, ripetuti un determinato numero di volte in luoghi e tempi prestabiliti.

Un testimonianza importante per la città di Alghero ci resta nella ricerca antropologica dello studioso Pasqual Scanu che la descrive nei minimi particolari (Esorcismi e formule medico-magiche in Alghero, Edizioni Nemapress).

In tutte le procedure si riscontra la comparsa di un “occhio” simbolico, che può manifestarsi per esempio nelle gocce dell’olio o nelle bolle che emergono dall’osso poroso immerso nell’acqua dalla guaritrice. L’”occhio” deve essere “tagliato”, eliminato, e molto spesso questo richiede la ripetizione del rito ed il ricorso, nei casi più gravi, ad altre persone esperte, sempre e solo gratuitamente. Il rituale termina diversamente a seconda dei paesi, degli elementi utilizzati e della procedura: il sale veniva consegnato all’interessato che lo doveva portare con sé, l’acqua veniva usata per tracciare sulle mani e sulla fronte dei segni di Croce, bevuta dal “malato” e quella avanzata gettata a terra con le sue energie negative. Il malocchio, l’occhio dell’altro, poteva colpire chiunque, i bambini in particolar modo, donne, uomini, anziani, ma anche animali, piante, oggetti, professionalità e situazioni delicate, quali fidanzamenti e legami di amicizia. Veniva provocato, “messo” come si dice tutt’oggi (mi ha messo occhio!), da persone del popolo, disagiate e analfabete, come da persone colte e ricche. La “medicina” per il malocchio aveva un carattere esorcistico, ed, appunto, come l’esorcismo cattolico, si avvaleva di acqua benedetta, segni di croce, e sale, che consentiva la purificazione e la liberazione dal male.

A volte la pratica, per poter essere attuata, necessitava di punti di contatto con la vittima quali, per esempio, porzioni degli abiti o i gioielli indossati dalla persona “colpita” quando si era sentita male.

La presenza del “malato” non era sempre necessaria, spesso bastava solo conoscerne il nome. In generale era radicata la credenza nel potere curativo non solo degli di oggetti sacri, come ostie, olio santo, palma benedetta, terra consacrata, (quasi sempre trafugati dalle chiese, dai conventi e dai cimiteri) ma anche dei luoghi: a volte, prima di procedere con i rituali si consigliava di portare i malati dentro una chiesa, mentre suoi oggetti, o parti di essi, venivano posizionati sugli altari durante le messe perché acquisissero nuovi poteri.  In alcuni casi, le pratiche di guarigione venivano compiute durante le feste religiose o ricorrenze legate al culto dei santi, ritenute più efficaci, come la notte di San Giovanni. Ugualmente la trasmissione delle preghiere, dei brebus e delle formule avveniva in giorni di devozione particolare, come nel caso della “medicina dell’occhio”, il Venerdì Santo, esclusivamente da una persona più grande ad una più giovane, perché avesse un futuro.

Il potere della guarigione era affidato alla forza salvifica delle parole non dette, solo bisbigliate dalla guaritrice in una cantilena incomprensibile, che non doveva essere capita, non doveva essere scritta e non doveva cadere nelle mani sbagliate, perché era sacra e, se usata male, poteva essere pericolosa. Il segreto garantisce la conservazione, la cantilena è come un mantra, è una preghiera che permette di entrare in un clima sacro di meditazione.

L’affascinante pratica della “medicina dell’occhio” è uno degli esempi di religiosità popolare intrecciata ad antiche credenze pagane, un rito antichissimo giunto fino a noi e praticato ancora in tutta l’Isola. È paraliturgica poiché alla base vi è la preghiera, il segno di Croce, un atteggiamento sacerdotale. È una preghiera, male non può fare, si dice. La liberazione dall’influenza negativa dell’altro avviene attraverso la guaritrice e l’intercessione con Dio e con i Santi. Chi ha avuto il privilegio di conoscere il contenuto di alcune formule ha avuto la conferma dell’antichità di questo unico rituale le cui parole di devozione celano il culto pagano legato alle forze della Natura, divinità che prendono nel tempo altre forme, altri significati.


Alessandra Derriu 

 Archivista e storica. Laureata in Conservazione dei Beni Culturali, Università degli Studi di Sassari, specializzata a Roma alla Scuola di Archivistica dell’Archivio Segreto Vaticano e presso la Scuola di Archivistica dell’Archivio di Stato di Cagliari. Autrice di: ‘Il tribunale dell’Inquisizione di Alghero. Storie di donne e di uomini attraverso documenti inediti del XVIII secolo’, 2015.  Magia e stregoneria dal Logudoro alla Barbagia. Le denunce dell’Inquisizione vescovile settecentesca nella diocesi di Alghero’, 2016. ‘Maura, l’indovina di Orotelli. Streghe nella Sardegna del ‘700’, 2018. 'L'eredità di Angela. Magia e stregoneria in Sardegna tra '800 e '900', 2020.

(Foto ©Studio 5 Alghero Fabio Sanna)


Articolo realizzato per il progetto "FocuSardegna a più voci"

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