Accadde cent’anni fa, nel settembre 1904. Fatti aspri e sanguinosi: alcune migliaia di minatori in sciopero, quattro di loro uccisi e altri undici feriti dai soldati mandati a reprimere quella che si volle credere, e non era, una minacciosa rivolta. Nei mesi precedenti a quel settembre, vi erano stati scioperi di scalpellini a Villasimius e alla Maddalena, di conciatori a Sassari e Bosa, di minatori a Lula e a Montevecchio, a Monteponi e a San Benedetto, a San Giovanni e a Ingurtosu. E poi, nei primi giorni del 1904, poco dopo la costituzione della federazione regionale dei minatori, è stata la volta di Buggerru, centro che si affaccia sulla costa occidentale dell’isola e che era allora un grosso borgo di novemila persone circondato dalle miniere che penetravano profondamente nel fianco roccioso delle colline.
Borgo d’aspetto non gaio poiché composto da casupole spesso cadenti con gli alloggi operai che salivano a schiere lungo il pendio. Qui tutto apparteneva alla società francese proprietaria del complesso minerario: i pozzi, la laveria, le officine, i magazzini, la scuola, le case, la terra, sulla quale nessuno poteva costruire un muretto, raccogliere legna per il focolare, piantare un albero.
Alla società francese apparteneva, oltre alle cose inanimate, la vita stessa degli uomini, poiché poteva disporre del loro lavoro, poteva concedere o negare un tetto sotto il quale ripararsi, un luogo nel quale farsi curare nell’eventualità non remota d’un infortunio o d’una malattia (non erano molti i lavoratori che sfuggissero all’insidia della silicosi e della tubercolosi che rodevano i polmoni). I minatori a Buggerru erano più di 2mila e ad essi si aggiungevano le donne addette alla cernita dei minerali e i ragazzi. I salari erano bassi: dalle 2 lire e 75 centesimi al giorno per gli armatori che lavoravano all’interno, agli 80 centesimi per le cernitici. Durissime le condizioni di lavoro. I turni avevano una durata non inferiore alle 9 ore; non vi era giorno di riposo settimanale; non esistevano contratti di lavoro, i minatori dipendevano interamente dai “caporali” che avevano il potere di assumere, di licenziare, di infliggere multe.
Ciascun minatore doveva provvedere da sé all’acquisto degli strumenti di lavoro e persino dell’olio per la lampada. Questo regime di duro sfruttamento non poteva non provocare un malcontento diffuso che per gradi l’opera intensa della lega dei minatori andò trasformando in spirito di consapevole rivendicazione. A esasperare la tensione e a rompere il fragile equilibrio nel quale Buggerru viveva fu, il 2 settembre 1904, fu l’ordine di anticipare di un mese l’entrata in vigore dell’orario di lavoro invernale: da quel giorno stesso, invece che dal primo giorno di ottobre com’era consuetudine.
L’intervallo del lavoro sarebbe stato ridotto di un’ora. Di qui l’esplodere della rabbia operaia. Quel pomeriggio i pozzi restarono deserti. Gli operai, in una massa che si ingrossava via via, si diressero verso l’abitato e il cuore della miniera, facendo interrompere il lavoro nelle officine e in ogni altro impianto. Fu così anche l’indomani, sabato 3 settembre: pozzi, officine, laveria, magazzini deserti con una gran folla in piazza. La società francese proprietaria della miniera corse ai ripari. Giunsero nel paese due compagnie del 42° reggimento di fanteria: partiti da Cagliari all’alba, i soldati avevano percorso a piedi la lunga strada da Iglesias a Buggerru.
La folla che gremiva la strada principale del paese li accolse in un silenzio ostile. Poiché non parve opportuno, né prudente che i soldati bivaccassero in piazza, frettolosamente si decise di alloggiarli in un hotel operaio. Tre operai ebbero l’incarico di preparare i locali. Ma gli altri minatori, avvicinatisi all’improvvisata caserma custodita da alcuni soldati, chiesero a gran voce che i loro 3 compagni uscissero dal vecchio edificio e si unissero a loro. Poco dopo col crescere della pressione, si videro i soldati schierarsi in buon numero all’esterno con baionette cariche. Dai minatori ormai vicini, partirono le prime sassate. Fu allora che i soldati imbracciarono i moschetti e spararono sulla folla. La tragedia si consumò veloce: sulla terra battuta della piazza giacevano una decina di minatori. Due, Felice Littera di 31 anni, di Masullas, e Giovanni Montixi di 49 anni, di Sardara, erano morti. Un terzo, Giustino Pittau, di Serramanna, colpito alla testa, morì in ospedale.
Un mese dopo anche il ferito Giovanni Pilloni, perì. Il 7 settembre nelle miniere di Buggerru fu ripreso il lavoro: il direttore concesse che per tutto il mese l’intervallo fosse di 3 ore invece che 2. Una modesta vittoria ottenuta a prezzo altissimo. Accadde però che, a rimettere in sesto il bilancio altrimenti amaro, qualche giorno più tardi, il 16 settembre, la Camera del Lavoro di Milano, per protesta contro l’eccidio dei minatori di Buggerru, proclamò per la prima volta lo sciopero generale nazionale che smuoveva l’intero movimento dei lavoratori italiani.
Massimiliano Perlato