Ozieri, capoluogo della regione storica del Logudoro, ha visto nascere quella che oggi è considerata dagli archeologi la più importante civiltà della Sardegna prenuragica, che prende il nome di Cultura di San Michele o, appunto, di Ozieri. Tutto cominciò, infatti, presso una grotta di questa località: la grotta di San Michele. Gli scavi qui effettuati, nel 1914 e nel 1949, portarono alla luce testimonianze fondamentali per la Sardegna archeologica, in grado di restituire il profilo di quest’antica ma progredita cultura, che si sviluppò nell’isola in un periodo compreso, all’incirca, tra il 3800 e il 2900 a. C.
Le popolazioni dell’epoca vivevano, si presume, in piccoli villaggi rurali, costruiti con capanne di pietra, dei quali sono state trovate tracce in tutto il territorio dell’isola. L’assenza di fortificazioni nei pressi di queste strutture induce gli studiosi a ritenere che queste genti convivessero in modo pacifico. Una netta inversione di tendenza si avrà in seguito, come testimoniano i numerosi bronzetti nuragici che rappresentano guerrieri.
Piuttosto rilevante era il culto dei morti, testimoniato dalle tantissime tombe scavate nella roccia, le cosiddette Domus De Janas (case delle fate), finemente decorate e dipinte, a dimostrazione di come questa antica società fosse organizzata ed evoluta.
Particolarmente diffusi erano i dipinti di protomi taurine, in quanto la figura del dio Toro era centrale nella religiosità della cultura di Ozieri. Questo animale, secondo gli studiosi, rappresentava infatti la fertilità virile.
« […] Espressione di questa società rurale », scrive Giovanni Lilliu nel suo La Società in Sardegna nei secoli, «è il culto del bue ( o del toro), figura dell’agricoltura evoluta all’aratro, che diventa il partner della Terra Madre, cioè della Dea Madre; e come questa, protegge vivi e morti. Il dio maschio e padre si riconosce per segni diversi. Talvolta è simbolizzato da grandi pietre verticali appuntite (i cosiddetti menhir), di evidente carattere fallico. Altre volte, nelle tombe sotterranee scavate nella roccia, la sua immagine aniconica è la colonna liscia o anche segnata da uno schema di corna bovine in rilievo. Il più delle volte, protomi taurine, scolpite o dipinte, isolate in coppia o con plurime iterazioni evocative, ornano porte e pareti delle Domus de janas e rendono dappertutto presente e insistente la simbologia magicamente protettiva e restauratrice del bue come personificazione divina caratteristica e necessaria della società agricola».
L’altra figura della religiosità di queste popolazioni, tirata in ballo da Lilliu in questo breve estratto, è quella della Dea Madre ( o Mater Mediterranea), che rappresenta, in linea con la precedente, la fertilità femminile.
Questa, raffigurata in statuette di marmo o di argilla, viene descritta, sempre dall’illustre archeologo sardo, come : « La figura della madre terrena, doppio della vegetazione, nobilitata e transumanata nella figura della madre celeste, la Dea Madre, di cui si ripetono numerose le immagini, in pietra e di terracotta, o i disegni simbolici, che la riproducono ora seduta ora in piedi, in forme talvolta esuberanti e carnose proprie della natura gravida di frutti, ora in espressioni schematiche e trascendenti coerenti con il concetto astrattivo della divinità e con la concezione dualistica della vita, fatta di cose concrete e di simboli, caratteristica della civiltà e della società contadina attenta a terra e cielo, nel rapporto agrario continuo ed organico».
Grande madre.
Da “101 cose da fare in Sardegna almeno una volta nella vita” di Gianmichele Lisai