C’ è un fuoco che divide e uno che unisce, uno che distrugge e uno che alimenta i buoni propositi, uno maledetto e uno rituale. Gennaio è mese dei fuochi. Non di quelli che riempiono il cielo estivo di polvere nera ma di altri, forse più silenziosi per la stampa nazionale, ma immancabili nella tradizione sarda.
Parliamo della festività di Sant’Antoni de su fogu, rito di matrice paleocristiana che culmina con l’accensione di giganteschi falò che ardono per tutta la notte del 16 gennaio.
Sant’Antonio Abate, detto anche Sant’Antonio d’Egitto, del Fuoco o del Deserto, fu un eremita egiziano vissuto tra il III e il IV secolo D.C., morto ultracentenario, considerato il fondatore del monachesimo cristiano nonché primo abate.
Patrono della pastorizia e dell’agricoltura, il nome del santo è indissolubilmente legato alla leggenda che lo vede errare, insieme al maialino che l’accompagna nella diffusa iconografia, nei gironi infernali per salvare le anime dei dannati: in una di queste occasioni il Santo, approfittando del disordine creato dal fido animale, riuscì a rubare una scintilla di fuoco, nascondendola dentro un tronco cavo, portandolo così agli uomini che non ne conoscevano l’esistenza. Una leggenda che fa subito venire alla mente il mito pagano di Prometeo e che si lega, di fatto, alla necessità di celebrare l’inizio dell’anno agricolo (che secondo i vecchi trattati di agricoltura inizierebbe il 17 gennaio per concludersi l’11 novembre) andandosi così a propiziare un buon raccolto.
In Sardegna il culto di Sant’Antonio, oltre ad essere diffuso in maniera pressoché capillare, si lega, in molti paesi, ad un altro evento importante: le maschere del carnevale fanno la loro prima uscita ufficiale. I volti ancestrali dei Mamuthones e Issohadores di Mamoiada, dei Boes e i Merdules di Ottana e altre maschere che affollano le vie dei paesi della Sardegna, riflettono le scintille dei grandi falò sapientemente preparati la mattina e accompagnano i presenti in sei vorticosi giri intorno al fuoco, tre in senso orario e tre in senso antiorario, andando così a sugellare un antico rituale.
La preparazione del falò, diversa da paese in paese, è attenta e ricercata: varie tipologie di legname (comprese le radici e alcune foglie per conferire dei profumi particolari) vengono accatastate per creare una sorta di capanna o, in altri casi, un’altissima piramide; frequente anche, per richiamare la leggenda del Santo, l’uso di un grande tronco di quercia secolare che viene acceso dall’interno. Sas Tuvas, sas Frascas, Sos Focos, Su Fogarone, Su Romasinu o Su Foghidoni sono alcuni dei nomi attribuiti al grande falò che, dal primo imbrunire, suggella la vittoria della luce sulle tenebre e, dopo la benedizione del parroco, assume la funzione di fuoco purificatore. Attorno al elemento sacro di “Su Fogarone”, si assaporano i dolci di sapa con il vino locale, si trascorre insieme la cena e, soprattutto, si balla, aspettando l’arrivo del carnevale.
Alcuni scatti realizzati da Matteo Setzu durante le scorse edizioni
Mariella Cortes