Sebbene attualmente non sia ben chiaro a tutti, la direzione che l’uomo moderno va prendendo nel tempo presuppone la costruzione di un mondo sempre più artificiale: il mondo delle città, delle grandi vie di comunicazione, degli allevamenti simili a catene di montaggio, delle reti telematiche, delle realtà virtuali. L’uomo moderno ha la presunzione di essere padrone e centro dell’Universo, è suo, è qualcosa che deve essere condizionato, razionalizzato, sfruttato.
Da tale atteggiamento si potrebbe dedurre che la civiltà odierna con le sue caratteristiche politiche, economiche, sociali, culturali e religiose, sia priva di quel contatto che le antiche tradizioni pensavano fosse di “ispirazione divina” e che forse permise alle civiltà del passato di evitare di degradare se stesse ed il proprio mondo.
UN PASSATO ANCORA PRESENTE
C’è stato un tempo in cui anche i sardi del passato vivevano in sintonia con delle realtà superiori da cui attingevano saperi e pratiche di notevole importanza al punto da influenzare ogni aspetto del quotidiano, sia sul piano materiale che strettamente emotivo. Un tempo in cui l’atteggiamento preponderante era di rispetto nei confronti della tradizione e dei fenomeni della natura; un approccio esteso fino ad alcune forme di cura attualmente soppiantate dalla scienza moderna poiché ritenute inadeguate e di conseguenza completamente escluse e non più considerate nella loro interezza. In Sardegna però sappiamo che il tempo scorre lentamente e parecchie pratiche curative tradizionali si conservano per trasmissione orale ed attraverso l’insegnamento all’interno delle stesse famiglie. Solamente dopo la seconda guerra mondiale i mutamenti sociali, economici e culturali dell’epoca hanno avuto un’estensione tale in tutta l’Europa da riuscire a penetrare nella nostra società agropastorale, influenzando in qualche modo le usanze locali, ma recenti studi mostrano che i guaritori tradizionali ancora in attività sono oltre un migliaio.
Tali figure molto spesso fanno uso di erbe e amuleti, praticano il culto dell’acqua o attraverso riti antichi e suggerimenti che arrivano da “mondi sottili” sono in grado di risolvere problemi che non vengono riconosciuti dalla medicina ufficiale, come la terapia per lo spavento, per le ustioni, per i porri e la diffusissima medicina dell’occhio.
Sarebbe piuttosto riduttivo comprimere queste tradizioni mediche ad un nucleo di fatti autenticati dalla scienza ripuliti da errori e superstizioni in quanto ritenute irrilevanti o addirittura negative; al contempo non sarebbe corretto pensare che l’uso di una tradizione medica sia più importante di altri metodi che la scienza odierna ha sperimentato su vasta scala; ma l’efficacia e la validità di ciascun approccio possono emergere solo quando essi vengono considerati in senso olistico (cioè come unità-totalità) e le diverse forme per quanto apparentemente in contraddizione, possono agire in sinergia con un obiettivo comune: il benessere dell’individuo.
LA MEDICINA DELL’OCCHIO
La medicina dell’occhio è una di quelle pratiche risalenti ad un passato imprecisato molto lontano e come dice il termine stesso andrebbe a curare dei malesseri la cui modalità di trasmissione si effettuerebbe attraverso gli occhi. Questo potere per lo più attribuito alla donna porterebbe col solo sguardo a degli effetti negativi ed immediati su un’altra persona; sono in molti a sostenere che si tratti di un fenomeno dovuto al sangue, quindi derivante dall’appartenenza ad un determinato ceppo familiare che predisporrebbe alcuni soggetti più di altri.
Il malocchio (ocru malu , ogru malu, eogu malu) causerebbe a livello fisico mal di testa improvvisi e frequenti senza un collegamento fisiologico specifico, malumore e sindrome depressiva; si potrebbero verificare eventi spiacevoli di diverso tipo all’interno della famiglia di appartenenza. Solo la medicina dell’occhio sarebbe in grado di riportare il soggetto in un normale stato psico-fisico e ristabilire l’equilibrio familiare. Sono stati registrati circa 24 metodi diversi di esecuzione del rito terapeutico variabili nei modi e tramandati soltanto alle persone considerate adatte, le uniche depositarie del segreto della formula e le uniche ad esercitare il rito. Tutti i metodi riscontrati vedono una ricombinazione dei seguenti elementi: i brebus, le preghiere, spesso associate all’uso di grano, acqua, sale, olio, pietra, riso, corna (cervo, muflone, bue), occhi di Santa Lucia, carta, carbone. Il rito viene eseguito dalle tre alle nove volte e a seconda dei casi con la collaborazione di più guaritori. Solamente nella zona dell’Ogliastra è stata riscontrata la presenza di un particolare rito che si diversifica dagli altri, noto come “s’abba faulada”, secondo cui la medicina dell’occhio assumerebbe la forma di un vero e proprio placebo.
PREVENZIONE
La tradizione vuole che si faccia uso di una serie di amuleti o che si effettuino gesti apotropaici volti ad annullare qualunque possibile influsso negativo derivante dal malocchio.
Tra gli scongiuri utilizzati è abbastanza comune l’usanza di sputare, come a significare la volontà di tenere lontano il male, oppure toccare ferro, corno, genitali o tirar fuori velocemente la lingua tre volte. Era nota anche a Cagliari l’usanza di fare sas ficas a fura.
Oltre alle tecniche gestuali si è sviluppato l’uso di oggetti, di origini del Mediterraneo, che hanno anche acquisito valore culturale riscontrabile nel vestiario tradizionale del proprio paese di origine.
Le ricerche rivolte in questo ambito hanno dimostrato che quasi tutti gli amuleti sardi avessero proprio come principale funzione quella di proteggere dal malocchio. La maggior parte sono andati perduti e sarebbero pervenuti fino a noi solamente oggetti di oreficeria o materiali ritenuti veramente importanti.
Molti di questi oggetti fanno parte dei tesori di famiglia e chiunque potrebbe averli ricevuti in dono o ereditati dai propri cari. Sa sabegia per esempio conosciuta in questo modo dai campidanesi; su cocco in Barbagia; in Gallura, Logudoro e Orgosolo su pinnadellu; nell’oristanese, a Desulo e nella Barbagia di Belvì su pinnadeddu. Tradizionalmente si trattava di una pietra nera tonda (in giavazzo, onice, ossidiana) incastonata nell’argento che doveva essere abbrebada, cioè su di essa si recitavano i succitati brebus per renderla funzionale. In alcune zone la pietra nera veniva sostituita dal corallo, meglio conosciuta in questo caso come corradeddu ‘e s’ogu leau (corallino del malocchio).
Essa simboleggia il globo oculare, l’occhio buono che si contrappone a quello cattivo in grado di assorbire gli influssi malefici arrivando a spaccarsi; si portava appesa sulla spalla e ricadente sul braccio, unita in un mazzo con altri amuleti. Spesso veniva appesa alle culle oppure i bambini più grandi la portavano al polso, legata con un fiocchetto verde, ricevuta in dono dalla nonna o dalla madrina di battesimo; le donne invece la esibivano al collo o appesa al corsetto. In alcuni casi si richiedeva di portare in tasca o negli indumenti intimi ramoscelli di lentischio o d’ulivo a contatto con la pelle.
ESEMPIO DI RITUALE
Prima fare il segno della croce, poi, prendere una scodella o un piatto colmo d’ acqua, fare su questa una croce con la mano destra e poi posarla su una qualsiasi parte del corpo di chi è stato colpito dal malocchio; infine, mentre si dà inizio alla recita di li parauli, lasciar cadere nell’acqua, tre grani di sale e tre gocce d’olio d’oliva dopo aver fatto sul sale e sull’olio, sempre con la mano destra, un segno di croce.
Se le tre gocce restano separate e ridotte, cioè senza spandersi o unirsi, il male non è causato dal malocchio; al contrario se si spandono anche restando separate (sfattu) oppure si uniscono, il malocchio c’è ed allora si recita:
Ghjiésù Cristu Nazarè,
cantu beddhu mi parè,
cantu beddhu mi paristi,
candu a lu mundu inisti,
cu una candéla lucendi,
e un agnulu in paradisu.
Santu Silvestru médicu lestru;
Santu Damianu medicu sanu;
Santu Pantalléu
è ca middhurési a Déu;
cussì middhória
ca pongu li mani éu.
Da “Magia e superstizione tra i pastori della Bassa Gallura” ,Nicolino Cucciari
Natascia Talloru