Di Danilo Lampis
La Sardegna in queste ore si sta opponendo in maniera unanime all’ipotesi di dover ospitare il Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi.
Lo sta facendo non perché affetta da una presunta sindrome Nimby, acronimo di “not in my backyard”, ovvero “non nel mio cortile”, ma semplicemente perché il suo “cortile” è già compromesso sul piano ambientale (secondi in Italia in quanto ad aree SIN da bonificare), militare (“ospitiamo” circa due terzi del demanio militare di tutto lo Stato, i due poligoni più grandi d’Europa), economico (prima si è imposta, con la complicità di parte delle classi dirigenti isolane, l’industria chimica e petrolchimica, poi l’isola è stata abbandonata agli effetti della deindustrializzazione in assenza di valide alternative volte al rafforzamento e all’innovazione dell’economia isolana). Insomma, senza mettere in discussione la necessità di individuare un sito per la realizzazione di un deposito sicuro in cui stoccare questi rifiuti, siamo convinti che in Sardegna abbiamo già dato tanto, troppo.
Alla sola ipotesi di dover sopportare una nuova servitù c’è dunque un’indisponibilità politica, di popolo, che ha comprovate radici storiche e che ha come recente e principale conferma democratica il referendum d’iniziativa popolare del 2011 che ha decretato, con il 97% dei voti, il “no” allo stoccaggio delle scorie. Un’indisponibilità che, oggi, viene pure rafforzata da criticità di diverso tipo – su tutte quelle derivanti dall’insularità e della bassa infrastrutturazione – sottolineate dai documenti della stessa Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee, che portano le 14 aree dell’isola a essere incluse nella classe B in quanto a idoneità. Dati che, teoricamente, dovrebbero rassicurare sulla futura scelta definitiva.
Ma bisogna comunque mantenere alta l’attenzione, perché non è solo sul piano “tecnico” che si giocherà la battaglia. La storia insegna che scelte come queste, fortemente impattanti sull’economia e la società, vengono prese seguendo anche altre logiche. La Sardegna, con il suo peso elettorale irrisorio, la scarsa densità abitativa e lo spopolamento apparentemente inesorabile, si presta sempre più a trasformarsi nei prossimi decenni in una piattaforma di deposito di scorie radioattive e rifiuti, ma anche energetica, militare, turistica. Ed essendo povera, è una terra che teoricamente può cedere più facilmente a nuovi miraggi occupazionali:
non è un caso che, già da ora, si annuncino incentivi economici e 4000 posti di lavoro per la costruzione del deposito e 700 per l’esercizio.
Il futuro che ci aspetta, se non ci sarà una grande assunzione di responsabilità da parte nostra, è alla mercé di investimenti predatori e nuove servitù. Non basta indignarsi rispetto a ipotesi del genere che, per l’ennesima volta nella storia recente, non rispondono alle tante necessità dell’isola, non valorizzando il tessuto produttivo, i beni culturali, ambientali, paesaggistici e non colmando il gap infrastrutturale. Serve affermare una nuova volontà collettiva che, accanto all’apertura di un’unitaria e plurale mobilitazione affinché la Sardegna non ceda a nuove ipotesi invalidanti e desertificanti qual è quest’ultima, animi nuove esperienze produttive, culturali e sociali emancipanti e generative, a misura dei bisogni e dei desideri di chi vive e vivrà quest’isola.
* Danilo Lampis
Laureato in scienze filosofiche presso l’Università di Bologna con una tesi vincitrice nel 2019 del premio internazionale della Fondazione Gramsci dedicato ad Alberto Cardosi. Già coordinatore nazionale dell’Unione degli Studenti, ora è componente dell’amministrazione comunale di Ortueri ed è attivo in diverse associazioni sul territorio regionale. Tra lavoro, progetti e studi, pubblica per alcune riviste cartacee e online articoli sui temi del lavoro, delle politiche di sviluppo, dell’istruzione e del welfare.
Articolo realizzato per il progetto "FocuSardegna a più voci"
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