Di Emiliano Deiana*
Il 21 gennaio si è celebrato, anche un po’ stancamente, il Centesimo Anniversario della nascita del Partito Comunista d’Italia. Nel 1921, a Livorno, la componente massimalista del Partito Socialista diede vita a una delle esperienze più peculiari della vita delle istituzioni italiane: quella del Partito Comunista. Ma all’interno di questa grande storia ce n’è un’altra ancor più peculiare e misconosciuta che affonda le proprie radici in Sardegna.
Forse vale la pena raccontarla. Siamo in Sardegna, appunto, alla vigilia dell’8 settembre 1943: la data che decreterà la fine del fascismo. Qui, un gruppo di attivisti dà vita a un’esperienza tanto unica quanto ardita con quello speciale ardimento che hanno solo i precursori che, inconsapevoli, sono in anticipo sui tempi della Storia.
In Sardegna, dicevamo, grazie a uomini come Antonio Cassitta, Giovanni Antioco Mura, Francesco Anfossi, Candido Adami, Antonio Gavino Manzona, Filippo Migheli, Andrea Biggio, Antonio Capitta nasce il Partito Comunista di Sardegna. Loro insieme ad Ermanno Giua, Virginio Lai, Carletto Cossu, Vittorio Rassu, Nanni Dore, Raffaele Pironti, Fulvio Sanna, Giovanni Battista Idili lavorano per un Partito Comunista di Sardegna e per la nascita di una Repubblica Sarda, in un quadro federale. La futura Repubblica di Sardegna, naturalmente sarà socialista e ben ancorata alle esperienze dei Soviet.
Il Partito Comunista di Sardegna nasce, dunque, e ha un suo Statuto e un programma politico ben delineato sul solco dell’esperienza marxista-leninista in Unione Sovietica. Ma le cose più interessanti, e moderne, non riguardano l’interpretazione dell’ideologia marxista, ma la Sardegna in quanto realtà storica, culturale, geografica differente dall’esperienza unitaria italiana. Si legge nel programma politico del PCS: “La Sardegna ha caratteristiche inconfondibili con le altre regioni d’Italia. Per le sue peculiari condizioni geografiche, storiche, economiche e spirituali la nostra isola è un’entità a sè stante e mal sopporta che forme istituzionali e organismi politici consolidatisi nella Penisola vengano imposti dall’alto”. E ancora si prosegue: 'Liberalismo, democrazie, fascismo; sistemi, dottrine, regimi affatto estranei ai sardi sono passati sulla Sardegna, vi si sono soffermati in forza di leggi e decreti, ma non si sono mai curati di penetrare l’anima sarda, di ascoltarne la voce accorata (...)'.
Si chiedono quelli del Partito Comunista di Sardegna: 'Siamo noi forse una razza inferiore incapace di concepire, formulare ed attuare un reggimento politico che serva gli interessi della nostra isola?'
Questa domanda, scritta nel ‘43, risuona ancora oggi e interroga persone, partiti politici, realtà organizzate: una domanda ineludibile che ci rimanda alla triste considerazione che fece qualche tempo dopo Cicitu Masala quando scrisse: 'Al mio ritorno in Sardegna, alla fine della guerra, mi capitò di poter comprendere che, con la caduta del fascismo, in sostanza, poco o nulla era cambiato, nella terra dei nuraghi: capitalismo fascista e capitalismo democratico, stato accentratore fascista, stato accentratore democratico erano la stessa musica, anche se i musicisti erano cambiati'.
Ma torniamo a noi: il partito si struttura e si organizza soprattutto nel Nord Sardegna, nella provincia di Sassari e in Gallura, ma come per tutte le esperienze che, per dirla con Gramsci, “accelerano il futuro” subisce attacchi fortissimi dal PCI e, in particolare, dai sardi del Partito Comunista Italiano che poi lavoreranno alacremente per distruggere ogni forma di memoria dell’esperienza del PCS. Era il PCI di Palmiro Togliatti che preparava la Svolta di Salerno e che non poteva tollerare devianze: nessuna rivoluzione bolscevica dopo la caduta del fascismo e partecipazione alle forme democratiche post-belliche.
L’esperienza del Partito Comunista di Sardegna rappresentava un fastidio di cui disfarsi presto e della cui distruzione furono incaricati i più fedeli esecutori dell’ortodossia: furono bocciate le tesi autonomistiche che il calangianese Antonio Cassitta (uomo di punta della gioventù comunista dopo il ‘21, in grande familiarità con Bordiga e molto stimato dallo stesso Antonio Gramsci) espose al PCI, furono delegittimati alcuni dirigenti (Francesco Anfossi e Candido Adami) accusati di aver collaborato con l’Ovra e, nel breve volgere di alcuni mesi, l’anomalia sarda fu inglobata dentro a quello che sarebbe diventato - ancora non loro era - un corpaccione. A questo si oppose Giovanni Antioco Mura, da Bonorva, che quando capì che il riassorbimento era ormai ineluttabile bollò i suoi compagni di essere dei traditori, nell’infinito ritorno dell’uguale.
Ecco: la Sardegna come anomalia. Un’anomalia che non deve esistere - per l’ortodossia centralistica italiana - né nella memoria né nelle ipotesi di futuro.
Mentre resta sospesa la domanda che si ponevano gli ideatori del PCS: “Siamo noi forse una razza inferiore incapace di concepire, formulare ed attuare un reggimento politico che serva gli interessi della nostra isola?”. Una domanda per le nuove generazioni che, magari, avranno forza, energie, forme e parole nuove per tentare una risposta.
Emiliano Deiana
Nato il primo aprile 1974 vive a Bortigiadas. Cofondatore della Libreria Bardamù di Tempio Pausania. È stato Sindaco di Bortigiadas per 15 anni, attualmente è Presidente di ANCI Sardegna. Ha pubblicato nel 2012 il libro di racconti satirici 'Bar Sport Democratico', Ethos Edizioni.
Nel 2020 è uscito il suo primo romanzo, 'La morte si nasconde negli orologi', Maxottantottoedizioni.
(Foto ©Andrea Deiana)
Articolo realizzato per il progetto "FocuSardegna a più voci"
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