*DI MARCO SECHI

Durante la pandemia influenzale il dibattito sulla scienza è divenuto celebre nell’opinione pubblica e spesso ci siamo ritrovati a mettere in discussione l’opportunità delle cure mediche, come ad esempio quella del vaccino. Generalmente, si è tentato di dare nuova forza alla dignità della medicina, ma comunque ci si è sempre ritrovati a dover rispondere alle continue insinuazioni dei cosiddetti negazionisti. Costoro rifiutano aprioristicamente qualunque risultato che derivi da uno studio accademico, senza analizzare le questioni nel merito, ma sulla base di un pregiudizio che fa dipendere la scienza dalle decisioni di una presunta élite esclusiva.

Il negazionismo non è nato di certo in questi ultimi anni, bensì ha avuto un forte sviluppo nel dibattito storico del Novecento, sebbene non abbia coinvolto la sensibilità dei comuni cittadini nelle stesse proporzioni. La storia nella cultura occidentale è sempre stata di un’importanza capitale ed essenziale per la costruzione dell’identità culturale delle sue comunità. Anche questa disciplina, che pretende di avere una dignità almeno pari a quella delle cosiddette scienze pure, fondate sull’esperienza e l’oggettività, si è spesso trovata a fronteggiare una delle forme di negazionismo più ignominiose, come quella riguardante la questione dell’Olocausto.

In questo caso è diventata fondamentale la ricerca sul metodo storico e la pretesa di molti storici e filosofi della scienza di trovare un metodo oggettivo che desse pari dignità di scienza anche alla storia. Per evidenti limiti intrinseci dovuti al suo oggetto di indagine, il passato, la storia non può determinare con assoluta certezza se le sue supposizioni siano o meno in contraddizione con i dati dell’esperienza. Il passato, infatti, non è direttamente a disposizione dello storico, come invece accade per l’oggetto di ricerca di cui può liberamente disporre un normale scienziato di laboratorio, riproducendo esperimenti in tempo reale per mettere alla prova la validità delle sue congetture.

Per poter accedere al passato, lo studioso della storia deve forzatamente ricorrere alle prove documentali.

Tra esse, particolare importanza rivestono le testimonianze, che possiamo intendere nel senso largo di un racconto diretto di un testimone storico, ma anche i documenti scritti o i reperti archeologici, e attesta che la valutazione storica sia fondata su un documento oggettivamente più o meno valido. La prova documentale è uno degli strumenti capitali per lo storico, poiché decreta l’affidabilità della sua narrazione storica ed impedisce che questa venga valutata come una invenzione della sua immaginazione, pari a un qualsiasi romanzo letterario (Chris Lorenz, “Can Histories Be True? Narrativism, Positivism, and the "Metaphorical Turn” , History and Theory 37, no. 3 (Ottobre 1998); Vinicio Busacchi, La capacità di ognuno, Carocci Editore, Roma, 2014).

In questo senso, ritornando all’Olocausto, le documentazioni fotografiche e video che sono pervenuti dai campi di concentramento sino a noi, hanno contribuito a corroborare la validità delle elaborazioni storiche sulla vicenda, sebbene ancora vi siano svariati tentativi di negare la realtà storica dell’eccidio nazista.

In particolare, il filosofo Paul Ricœur ha introdotto il dibattito nell’ambiente dei filosofi della scienza, a partire dagli anni ‘80. A questo proposito si vedano Paul Ricœur, Temps et récit. L’intrigue et le récit historique, Éd. du Seuil, Paris, 1985; Paul Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Éd. du Seuil, Paris, 2000, mentre più in generale, in relazione alla storiografia e l’epistemologia francese si possono consultare François Dosse, “L’histoire sociale à « la française » à son apogee: Labrousse/Braudel”. In “Les courants historique en France”, a cura di Christian Delacroix, François Dosse e Paul Garcia, Gallimard, Parigi, 2014, pp. 296-347. Successivamente i convegni tenuti a Napoli e a Cagliari sull’argomento, hanno introdotto recentemente queste tematiche. Si vedano le pubblicazioni in relazione al convegno svoltosi all’Università di Cagliari, “Realtà, Verità, Rappresentazione” (5-7 Giugno) e il convegno "Verità, Immagine, Normatività" (22-24 Ottobre 2014), rispettivamente: Pier Luigi Lecis, Vinicio Busacchi, Pietro Salis, Realtà, Verità, Rappresentazione, Franco Angeli, Milano, 2015 e Pier Luigi Lecis, Giuseppe Lorini, Vinicio Busacchi, Pietro Salis, Olimpia G. Loddo (a cura di), Verità. Immagine, Normatività. Truth, Image, Normativity, Quodlibet, 2017.

La questione del ritrovamento delle statue di Mont’e Prama, è di primaria importanza per la dignità storica.

La Sardegna è una delle regioni italiane più ricche di testimonianze archeologiche, alcuni peculiari ed esclusive come quelle della civiltà nuragica. Il ritrovamento delle statue di Mont’e Prama è stata una delle testimonianze più caratterizzanti della civiltà nuragica. È considerata una svolta nella storia della statuaria del Mediterraneo, sia per quanto riguarda la tecnica artistica, che per l’importanza del patrimonio culturale della civiltà nuragica (A. Bedini, C. Tronchetti, G. Ugas, R. Zucca, Giganti di Pietra. Monte Prama. L’Heroon che cambia la storia della Sardegna e del Mediterraneo, Fabula srl, Cagliari, 2012).

Planimetria della Necropoli di mont'e Prama - Penisola del Sinis

Sappiamo che a causa dei numerosi furti c’è stata una vera e propria diaspora dei reperti della civiltà nuragica, sparsi in musei all’estero o in collezioni private. Il costone roccioso della Penisola del Sinis che volge ad occidente, pochi metri dopo l’area archeologica di Tharros, presenta ancora i resti diroccati delle tombe a camera scavate nella roccia, demolite negli ultimi secoli a suon di dinamite per fare la fortuna dei tombaroli. Eppure molte di queste testimonianze, queste documentazioni archeologiche, sono custodite in musei di tutto rispetto, accessibili ad un pubblico internazionale.

Tuttavia il patrimonio culturale, che prima era la vita delle civiltà antiche della Sardegna, ora è demanio di nazioni estere, di privati.

Se la sottrazione dei patrimoni archeologici dal loro contesto d’origine è considerata quantomeno una depauperazione del territorio a cui appartengono, essa determina anche la definitiva impossibilità delle comunità di quel territorio di poter prendere coscienza della propria storia secolare, grazie alle prove documentali, le testimonianze fondamentali per la ricostruzione della loro storia.

Non parliamo, infatti, di economia e di turismo, che comunque sono questioni di tutto rispetto. Pensiamo piuttosto al servizio che potremmo fare ad un territorio, elevando i reperti archeologici a simbolo culturale, come se fossero un baluardo della civiltà e un punto di partenza per la sussistenza delle comunità umane. Se si lamenta spesso che le periferie della Sardegna sono poco sviluppate rispetto ai centri cittadini, è bene che tutti i simboli culturali necessari allo sviluppo di una comunità non siano sottratti al territorio d’origine.

Volto di una statua di mont 'e Prama 

La testimonianza è sì essenziale per la ricerca storica, ma è soprattutto un simbolo, per dirla con Paul Ricœur, un “simbolo che dà a pensare”. La base della riflessione e dello sviluppo culturale inizia dai simboli che noi sentiamo propri, e nella stessa direzione si inserisce il discorso di Pierre Nora sui “luoghi della memoria”. Una delocalizzazione delle testimonianze archeologiche dal loro contesto d’origine ostacolerebbe questo processo di importanza sociale.

La memoria storica non può essere strumentalizzata come un vessillo, non deve perseguire “il consenso ideologico e politico” o, come in questo caso, soddisfare determinate esigenze economiche, bensì “la memoria (…) è sempre costitutiva della loro identità, vale a dire, della loro esistenza – delle comunità, n.d.r.” (Pierre Nora, “Les Lieux de mémoire”, Gallimard, Paris, 1992). Esistenza delle comunità che oggi è messa in pericolo, come non mai, a causa dello spopolamento dei piccoli centri soprattutto in Sardegna. Le prime a subire uno svantaggio sarebbero le giovani generazioni, custodi dei propri “luoghi della memoria” e quindi delle loro comunità. I futuri studenti indigeni vedranno sottrarsi delle statue che hanno sempre abitato la loro terra natia.

Perciò, prima che redivivi Cesari e Napoleoni arricchiscano le proprie capitali con obelischi trafugati, cerchiamo tutti di fare in modo che i reperti di Mont’e Prama non abbandonino il luogo in cui sono stati ritrovati.


Marco Sechi è membro del direttivo dell’Associazione Culturale e Folklorica “A sa Crabarissa”, specializzato in Filosofia Teoretica all’Università di Cagliari sul tema della conoscenza storica. Con l’Associazione, porta avanti un lavoro di ricerca sulle tradizioni culturali del proprio paese d’origine.

Articolo realizzato per il progetto "FocuSardegna a più voci"

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