DI MARGHERITA ZURRU*
L’otto marzo è Tonina, 83 anni, la patente di guida nel cassetto da 40, sempre rinnovata con cura e tirata fuori quando suo marito, a causa di qualche problemino di salute, non ha più potuto guidare. E siccome la vita l’ha abituata a ben altre sciagure, non si è certo persa d’animo, con granitica risolutezza ha superato le resistenze di figli e nipoti, preso lezioni di guida e speso i suoi risparmi in un’auto con le marce automatiche. Poche settimane dopo, gira libera per le strade della sua città. Vedeste che sguardo fiero sfodera, mentre mi dice: “Me ne sento sessanta, non uno di più”. Vedeste con quanta ammirazione la guarda sua nipote, poco più di vent’anni e tutta una vita di sfide davanti.
L’otto marzo è Valentina, 34 anni, che è già andata via di casa tre volte e l’ultima con quattro costole rotte, i lividi lungo tutta la schiena, uno per ogni falange di un uomo che dice di amarla. Adesso è in ospedale e non può vedere nessuno, prima di entrare mi ha chiesto una nuova scheda telefonica e ho creduto che finalmente fosse davvero finita. Invece mi ha chiamato stamattina e mi ha detto che vorrebbe parlargli, almeno per qualche minuto “Solo per chiarire le cose”, dice lei. Lui è riuscito a rintracciarla e le ha fatto arrivare un mazzo di fiori fin lì. “Non lo ferma nessuno quando si mette in testa una cosa…” le si addolcisce la voce mentre lo dice e io dall’altra parte del telefono vorrei urlare, ma mi trattengo e faccio quello che posso. Chiusa la chiamata, lei resta sola nella stanza bianca con quei fiori sul comodino, legge e rilegge il biglietto di scuse e lotta contro la tentazione di cedere al miele avvelenato delle promesse - già ascoltate, uguali ogni volta - di un cambiamento che non avverrà.
L’otto marzo è anche la madre di Valentina, che riconosce la titubanza nella voce della figlia al telefono, sa perfettamente cosa sta per succedere, ma sa anche che non può impedirle di scegliere.
L’otto marzo è Angelica, che di anni ne ha 29 e ha firmato il suo primo vero contratto di lavoro proprio l’altro giorno. E' una consulenza di 6 mesi, poi si vedrà. Angelica nel curriculum ha una laurea col massimo dei voti, un master e anche un’esperienza all’estero. Una volta ha calcolato che i suoi genitori per pagarle gli studi hanno investito più di centomila euro. “Avrei potuto aprire una birreria, forse sarebbe stato meglio!”, mi dice. Al collega con il quale dividerà la stanza, nessun master ma maschio, assunto da poco anche lui, hanno offerto trecento euro al mese più di lei. Gliel’ha scritto in chat, il giorno dopo aver firmato, ammaccandole un po’ l’entusiasmo per quel primo incarico. Ma di questi tempi è già una gran fortuna potersi pagare in due un bilocale in affitto, se vivi in Italia, hai 29 anni, una laurea con il massimo dei voti, ma nessun santo in paradiso. Vorrebbe un figlio dalla sua compagna, Angelica, ma non se lo può permettere. Mi dice proprio così “Non ce lo possiamo ancora permettere, un figlio. Lo sai quanto costa l’asilo?”
L’otto marzo è Marta, 42 anni, che attende in una sala d’aspetto il suo turno per abortire. Ottenere un appuntamento prima che scadesse il termine è stata una corsa contro il tempo, e ora sospira di sollievo mentre ripensa alla trafila tra analisi, visite varie, burocrazia, obiettori ovunque. Tiene in mano il certificato del consultorio, dove ha fatto l’eco e la visita psicologica di routine. “E’ proprio sicura, signora? Ci sono alternative, sa? Sono due, si muovono, guardi lo schermo…”. Poco più tardi, di fronte alle domande intime, invadenti, di quelle due estranee in camice bianco, Marta avrebbe solo voluto girare i tacchi e andarsene sbattendo la porta. Ma le serviva a tutti i costi, quel foglio, e quindi è rimasta e ha risposto a tutti i perché e i per come, ogni tanto inventando un po’. Ora lo gira e lo rigira fra le dita, quel certificato benedetto, Marta, e non ha alcun dubbio, vuole solo fare presto. Accanto a lei, donne di ogni età, molte le straniere. Ad un tratto apre la porta un uomo e da lì chiede: “Scusate, è qui che si aspetta per la gastroscopia?”. L’infermiera gli risponde di rimando, dall’altra parte della stanza, a voce altissima: “Qui si fanno solo aborti, non vede? Sono tutte donne”. Lui posa un attimo lo sguardo su di loro, sedute ordinatamente a distanza di sicurezza, e poi richiude la porta, piano. Marta non solleva lo sguardo da terra. Dopo due ore è il suo turno, il medico è gentile, la fa sdraiare su un lettino ginecologico, ai piedi del quale c’è una scatola alta in cartone, Marta non può fare a meno di buttare uno sguardo, intravvede cotone e bende insanguinate, devono essere i rifiuti dell’aborto precedente. Trattiene a stento i conati. Arriva l’iniezione ad addormentarla, finalmente. Dopo un po’ si sveglia, iniziano i crampi, hanno detto che è normale. Aspetta qualche ora, non c’è nessuno fuori ad aspettarla, quindi firma quel che c’è da firmare e se ne va, da sola. Torna a casa e si mette a letto, mentre non riesce a togliersi di dosso una sensazione appiccicaticcia di vergogna.
L’otto marzo è anche Giulia, che ha 16 anni e aspetta tutta la settimana il sabato pomeriggio per raggiungere i suoi amici in centro. Prende il 90 da casa sua. Sono otto fermate per andare e altrettante per tornare. Si è divertita Giulia, è stata una bella serata. Quand’è il momento, saluta le amiche alla fermata, e aspetta che arrivi l’autobus. Eccolo, sale, poca gente. Resta in piedi, otto fermate passano in fretta. Scende, è già buio, si guarda intorno. Cammina sul marciapiede, sente dei passi dietro di lei, si gira, sono in due, camminano a passo svelto, guardandola fissa. Giulia sa come funziona, lo sa da anni, ormai. Ha messo le scarpe comode a posta. Scende dal marciapiede e prende a camminare sul bordo della strada, sotto la luce fioca dei lampioni. Accelera. Sente che ridacchiano, “Che bel culo che hai, come ti chiami?”, in strada passano poche macchine. Giulia ha paura, magari hanno bevuto. Prende in mano il cellulare, prepara la chiamata. Accelera ancora, quasi corre, li sente ridacchiare più forte “Dai non scappare, come hai detto che ti chiami?”. Attraversa lei, attraversano anche loro. Cento, ottanta, cinquanta, venti metri, ecco il portone. Citofona. “Chi è?” “Sono io”. Mentre chiude il cancello alle spalle, si volta per guardarli in faccia un’ultima volta. Uno le sembra di riconoscerlo, ha fatto le medie nella sua stessa scuola. Loro ridacchiano ancora. E’ abituata Giulia, episodi così, a lei, alle sue amiche, capitano spesso. Sulle scale il cuore le batte ancora un po’, poi entra a casa, saluta e si siede al tavolo per cenare con la sua famiglia. “Sabato prossimo vedrò come fare” pensa, mentre addenta una fetta di pizza.
L’otto marzo è ogni giorno. Per Tonina, Valentina, Angelica, Marta e Giulia. Lo è per le loro madri, sorelle, cugine, amiche. Così come per le nostre.
Lo è per le 99 mila donne (contro 2 mila uomini) che hanno perso il lavoro nel solo ultimo mese di dicembre. Per tutte coloro che attendono il 1 aprile per scoprire che saranno le prime ad essere licenziate.
L’otto marzo è perché nel nostro Paese come altrove, sin dalla nascita, la metà della popolazione si porta addosso uno speciale marchio di discriminazione: in famiglia, negli studi, a lavoro, per strada. Pensateci: è come se una persona ogni due vivesse tutta la vita indossando sulle spalle uno zaino pesante che rallenta, ostacola, affatica l’intero percorso e rischia di condizionare ogni scelta: quelle piccole, quelle importanti.
Da più parti affermano che raggiungere la parità gioverebbe all’economia, porterebbe sviluppo. Io ascolto e penso che non può essere questo l’argomento determinante. E’ una questione di giustizia, di uguaglianza, di diritti fondamentali violati sistematicamente. Che coinvolge quotidianamente tutte e tutti noi. Nessuno si può considerare assolto.
Io l’otto marzo e lotto anche tutti gli altri giorni. E voi?
MARGHERITA ZURRU
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Nuorese, avvocata. Collabora con diversi Centri antiviolenza, è consulente legislativa al Senato.
Da vent'anni vive a Roma e inventa pretesti per tornare in Sardegna.
Articolo realizzato per il progetto "FocuSardegna a più voci"