*DI MARGHERITA ZURRU

Porto di Livorno, 10 aprile 1991. Inizialmente diedero la colpa alla nebbia. La descrissero impenetrabile, al punto da rendere invisibile l’Agip Abruzzo - una petroliera lunga 350 metri, alta sette piani, perfettamente illuminata – che era alla fonda in quel preciso punto da un giorno intero.

Anche a credere alla nebbia, possibile che nessuno dalla cabina di comando del Moby Prince abbia buttato uno sguardo sul radar? E c’era poi stata per davvero, quella sera, questa strana nebbia a banchi, nella rada del porto di Livorno?

Qualcuno, da più parti, iniziò a sollevare i primi dubbi: la visibilità era stata perfetta sino a pochi attimi prima della collisione e poi, sentiti uno per uno, i testimoni parlarono di fumo, che bruciava gli occhi e la gola. Fu così che addossarono le colpe sul comandante Ugo Chessa, che per imprudenza, avrebbe portato il traghetto fuori dal porto, sulla rotta per Olbia, ad una velocità troppo elevata, confidando nella propria trentennale esperienza di uomo di mare, e tuttavia facendosi cogliere impreparato da quel bizzarro fenomeno atmosferico, mai visto prima da quelle parti, che avrebbe reso il porto un luogo irriconoscibile e sinistro, persino per chi – come lui, abituato a navigare anche su tratte transoceaniche – lo percorreva da anni.

E gli altri? Possibile che nessuno si fosse reso conto che lungo la traiettoria del Moby Prince si stagliasse quel colosso di lamiera e petrolio?

L’equipaggio era distratto, si disse. Quella sera si giocava una partita di calcio importante. Altra negligenza del comandante Chessa: dissero che consentì a gran parte dei marittimi di attardarsi nella sala comune per tifare la Juventus che giocava contro il Barcellona. Le accuse contro Chessa e il suo equipaggio si sgretoleranno in polvere solo decenni dopo, come vedremo, lasciando intatta la sua immagine di navigatore capace e scrupoloso, severo, stimato da tutti.

Quella sera, il mayday lanciato dal Moby Prince alle 22.25, solo pochi istanti dopo l’impatto, cadde nel vuoto, inascoltato. Il comando della petroliera richiamò a sé tutti i soccorsi, riferendo di essere stata speronata da una bettolina, imbarcazione di ridotte dimensioni, di solito utilizzata per il trasporto delle merci.

Solo alle 23.45, un’ora e venti dopo la collisione, un’imbarcazione di ormeggiatori, in totale autonomia e senza aver ricevuto alcuna direttiva da parte della Capitaneria di Porto cui spettava di coordinare i soccorsi, raggiunse il traghetto in fiamme, che vagava con moto circolare e velocità ridottissima, ad appena poche miglia dal porto.

 L'Agip Abruzzo dopo la collisione (ANSA)

Fu così che venne salvato l’unico superstite a bordo del Moby Prince. Ed è bene ricordarlo: Alessio Bertrand, mozzo napoletano di 23 anni, fu recato in salvo da due ormeggiatori, giunti per caso sul posto, perché nessun’altro stava cercando il traghetto.

Durante i processi sostennero che in 140, fra passeggeri ed equipaggio, morirono in meno di mezz’ora, arsi vivi dalle fiamme di un incendio devastante. I soccorsi non arrivarono mai. E comunque, sarebbe stato inutile tentare di spegnere l’incendio, dato che morirono tutti in poche decine di minuti.

Ma andò davvero così?

Anni e anni di indagini e processi si conclusero con l’assoluzione di tutti gli imputati e l’archiviazione della condanna per uno di essi, per intervenuta prescrizione. Nessuna condanna, ma una cortina fitta di insinuazioni sul comandante Chessa, che aveva tutte le carte in regola per diventare il capro espiatorio perfetto: guidava il traghetto, e soprattutto era morto nell’incendio. Quindi non poteva difendersi. 

A farlo per lui, instancabilmente, in questi lunghi, dolorosi, estenuanti 30 anni, i suoi due figli, Angelo e Luchino, che insieme agli altri familiari delle vittime - in prima fila Loris Rispoli, fratello di Liana, commessa nella boutique della nave - hanno continuato a cercare la verità, opponendosi al supplizio di omissioni e insabbiamenti dei processi. Pretesa incessante di verità che poco alla volta ha illuminato il racconto fornito da sentenze zoppicanti di errori ed omissioni; prove occultate e manomesse; sabotaggi; reticenze. Vere e proprie clamorose menzogne.

Il relitto della Moby Prince (ANSA)

C’è un giudice condannato per corruzione in atti giudiziari, fra le pieghe di questa vicenda. E non è la cosa più assurda.

C’è la posizione della petroliera al momento dell’impatto, che risulterà alla fonda all’interno della zona interdetta all’ancoraggio, posta in prossimità dell’uscita del porto.

C’è il mistero della provenienza e del carico dell’Agip.

Ci sono evidenze di pericolose operazioni di trasferimento di acque di sentina da una cisterna all’altra; di atipiche attività sul ponte della petroliera; di una strana nube biancastra sprigionatasi chissà come sul ponte proprio quella sera, poco prima dell’impatto.

Ci sono i segreti della vicina base americana di Camp Derby e i tracciati radar sempre negati alle autorità italiane.

C’è un uomo che si chiama Antonio Rodi, il cui corpo viene fotografato alle 7.30 del mattino, riverso ma integro, sul ponte del traghetto. Nessuno che si sia avvicinato per vedere se fosse ancora vivo. Perfettamente integro alle 7.30 del mattino, viene fotografato carbonizzato due ore più tardi. A che ora è arrivato sul ponte e soprattutto, a che ora è morto?

C’è il salone deluxe, cuore del traghetto a tenuta ignifuga, in cui vengono recuperati gran parte dei cadaveri. Alcuni sembrano addormentati, non li hanno uccisi le fiamme.

Ci sono i dettagli strazianti delle famiglie rinvenute accalcate, i bambini e le donne per terra, gli uomini sdraiati sopra di essi per proteggerli quanto più a lungo possibile dal fuoco e dal fumo. Diversi di loro indossano il giubbotto di salvataggio e hanno con sé i propri bagagli, segno che hanno aspettato di essere salvati.

Il ritrovamento dei corpi racconta di un’attività, durata certo molto più della mezz’ora ipotizzata dalle prime perizie durante i processi, organizzata in modo preciso da parte dell’equipaggio, il quale non è scappato per mettersi in salvo, ma ha riunito gran parte dei passeggeri all’interno del salone, disponendoli al centro di esso, in attesa dei soccorsi.

Soccorsi che non arriveranno.

Ci sono i silenzi del comandante del porto, l’Ammiraglio Sergio Albanese, il quale in tutta la notte non dice una sola parola per organizzare l’intervento dei mezzi di soccorso.

Ci sono le imbarcazioni di Capitaneria di Porto, Guardia di Finanza, Vigili del Fuoco, che raggiunta la Moby si dispongono intorno ad essa, a raggiera. Immobili, a guardarla bruciare. Senza muovere un dito.

Ci sono altre navi che lasciano il porto in tutta fretta, dubbi su esplosioni di gas e avarie a bordo del Moby Prince, che potrebbero aver deviato la sua traiettoria di marcia.

C’è una polizza assicurativa sottoscritta con fortunata tempestività proprio pochi mesi prima del disastro, che ricoprirà d’oro l’armatore Onorato.

Ci sono le storie, ciascuna unica e speciale, di quelle 140 persone, morte senza un perché.

A districare i nodi di questa intricatissima vicenda, un manipolo di esperti incaricati dai familiari delle vittime, e poi, istituita in Senato, grazie alla loro ferma determinazione, la Commissione parlamentare d’inchiesta che il 22 dicembre del 2017, dopo due anni di lavoro appassionato, ha approvato all’unanimità una relazione finale che tenta di fare ordine e ristabilire la verità.

Un percorso non ancora terminato, che è importante non abbandonare.

“Quando si dice la verità non bisogna dolersi di averla letta. La verità è sempre illuminante. Ci aiuta ad essere coraggiosi” scriveva Aldo Moro.

 


MARGHERITA ZURRU  

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Nuorese, avvocata. Collabora con diversi Centri antiviolenza, è consulente legislativa al Senato. Da vent'anni vive a Roma e inventa pretesti per tornare in Sardegna.  

 Articolo realizzato per il progetto "FocuSardegna a più voci"