Non si contano le occasioni in cui si è narrato il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza come un’occasione unica per combattere le disuguaglianze territoriali, partendo dal rafforzamento dei servizi e da nuove occasioni di sviluppo socio-economico per i piccoli comuni, in particolare delle aree interne.
Due bandi di cui si è tanto parlato in questi mesi dimostrano che non sarà esattamente così e si dovrebbe iniziare a parlarne diffusamente, abbandonando una retorica “salvifica” sul Piano che troppo spesso ha viziato dibattiti e valutazioni.
Partiamo dal più noto. Il 15 marzo, centinaia di comuni inviavano all’ultimo minuto i propri progetti per la linea B del Bando Borghi del MiC, che con uno stanziamento di 380 milioni finanzierà 229 progetti di paesi o aggregazioni di paesi (fino a un massimo di 3) sotto i 5 mila abitanti. Dopo la tanto contestata lotteria della linea A, che distribuirà 420 milioni di euro a 21 paesi (20 milioni a progetto), con la seconda linea si è indotta una competizione sfrenata tra comuni — alla faccia della necessità di fare rete — , che sono stati tempestati da proposte di consulenza per improvvisare progetti di sviluppo e, soltanto raramente, implementare percorsi già esistenti. Molti neanche ci hanno provato a progettare, soprattutto i comuni più piccoli. Come risulta dal Ministero, sono state presentate quasi 1800 domande: e se alcune sono state certamente presentate in forma aggregata, è certo che sono rimasti esclusi più della metà dei comuni sotto i 5.000 abitanti, che sono circa 5500.
Il secondo esempio è il bando del Miur per gli asili nido. Le richieste di finanziamento si sono fermate a 1,2 miliardi di euro, a fronte di 2,4 miliardi disponibili, tanto che si è dovuta prorogare la scadenza da fine febbraio al 31 marzo. A disertare sono sempre stati i comuni più piccoli, in particolare del Sud e delle isole. Paradossalmente, proprio quelli che ne avrebbero più bisogno, dato che se al Nord 33 bambini su 100 vengono accolti nelle relative strutture, nel Mezzogiorno le cifre calano in alcuni casi al 10%. Il motivo potrebbe sembrare solo uno: la gestione dei nidi è a carico comunale, e finanziare le infrastrutture (come fa il bando) senza dare una prospettiva di lungo termine rispetto alla gestione economica del servizio, per molti comuni appare un rischio.
Ma la verità è più profonda: i comuni di piccole e medio-piccole dimensioni, in particolare delle aree interne e del Mezzogiorno, hanno generalmente poca esperienza per progettare nell’ambito della rigenerazione culturale e dell’innovazione sociale nelle sue molteplici declinazioni. E questo non perché sono “fannulloni”, ma perché hanno generalmente poche risorse umane, e quelle che ci sono hanno altri compiti. Con queste ultime, in queste settimane appena trascorse, avrebbero dovuto rispondere contemporaneamente a una miriade di bandi su settori differenti. Una cosa irrealistica.
Si dirà che avrebbero potuto comunque affidare la progettazione a società esterne. Posto il fatto che nel 2022 sarebbe pure ora di vedere l’esternalizzazione di questi servizi come un deficit da superare, dato che le professionalità in grado di seguire progettazioni di questo tipo — meglio se in chiave partecipativa — oggi sono importanti quanto quelle di un ufficio tecnico o sociale, per dare una risposta all’interlocutore basterebbe invitarlo ad osservare con attenzione la giornata tipo di un Sindaco di un piccolo paese. Scoprirebbe che l’indebolimento decennale della Pubblica Amministrazione e il ritiro della politica organizzata hanno comportato il fatto che chi amministra è molto spesso costretto a inseguire quotidianamente le urgenze dell’ordinarietà, e spesso non riesce a conservare tempo ed energie anche solo per pensare oltre quest’ultima.
Di fronte a tutto questo, il risultato di questo bandificio del PNRR non potrà che essere il seguente: si rafforzerà chi è già forte — aggiungendo servizi e opportunità là dove ci sono già — e si lascerà ancora più indietro chi lo è già, colpevole di “non saper progettare”. A vincere è una logica falsamente meritocratica, che non tiene conto delle debolezze strutturali e delle condizioni di partenza di tanti comuni sopra menzionati.
Dato che ormai stiamo parlando di fatti compiuti, è certamente più utile chiedersi come voltare pagina. Se si ha sul serio a cuore la lotta alle disuguaglianze territoriali e il contrasto al declino di vaste aree che in questi ultimi tre decenni sono state messe ai margini dal punto di vista produttivo, delle infrastrutture e dei servizi, bisognerebbe discutere apertamente della necessità di una pianificazione pubblica pluriennale, largamente finanziata attraverso politiche fiscali di natura redistributiva, per garantire servizi, rafforzare la PA, investire concretamente in un nuovo modello di sviluppo sostenibile socialmente ed ecologicamente.
Per tutto ciò, che dovrebbe essere una priorità politica sia perché coinvolge milione di persone, sia perché costituisce una parte rilevante della risposta alla rivoluzione ecologica da costruire, esistono già strumenti legislativi e programmi — dalla Strategia Nazionale delle Aree Interne alla legge 158/2017 — ma le risorse non sono sufficienti e dominano i ritardi. Inoltre, finora si è scontata una scarsa attenzione alla qualità del popolamento, ovvero sono mancate politiche e azioni strutturali volte ad attivare le energie locali non solo sul fronte economico ma anche su quello sociale. Nei paesi a poco servono servizi, infrastrutture moderne ed efficienti o case a 1 euro, se non si garantisce al contempo una sostenibilità economica e una desiderabilità al viverli da abitanti, cittadini e produttori, rinnovando e riattivando le comunità a partire da chi le vive o vorrebbe viverle. Il rischio è riqualificare borghi, non rigenerare paesi: in altre parole riqualificare i contenitori, non costruire comunità aperte e intraprendenti.
E poi, oltre al “cosa”, servirebbe anche discutere sul “come” si fa tutto ciò: sicuramente riducendo lo strumento del bando e dando vigore a una nuova stagione di programmazione condivisa dai vari livelli di governo (all’insegna della cooperazione e della sussidiarietà), con una partecipazione inedita della cittadinanza — dei singoli, come pure delle sue articolazioni private, del terzo settore e sindacali— per la co-progettazione di una parte delle azioni necessarie e l’avvio o il rinnovo, adeguatamente sostenuto e accompagnato, di attività economiche, sociali e culturali.
Redistribuzione delle ricchezze e pianificazione pubblica, cooperazione istituzionale e tra pubblico, privato e Terzo Settore, empowerment delle comunità e localizzazione produttiva e culturale: sono queste alcune parole chiave per una nuova politica realmente capace di rigenerare i luoghi, rispondendo a vecchi e nuovi bisogni materiali e di riconoscimento sociale e culturale di milioni di persone che vivono i piccoli comuni. Serve dunque una nuova visione non più succube di tecnici imbevuti di neoliberismo che scrivono piani pubblici e continuano a definire procedure che consolidano le disuguaglianze invece che abbatterle.
P.S. Il mio Comune ha presentato un progetto per la linea B del Bando Borghi, con la volontà di dare seguito a progettualità già attive o in fase di avvio. Anche grazie all’esperienza di quest’ultima progettazione, e di tante altre precedenti alle quali abbiamo partecipato — anche vincendo — , che esprimo una valutazione di questo tipo.
DANILO LAMPIS