Sono figlia e nipote di persone che fanno o sono alla costante ricerca di lavori manuali, faticosi e sottopagati, che si sono ritrovate a vivere in posti fatiscenti o in situazioni di una precarietà tale da chiedersi quanto ci avrebbe messo l'Enel a staccare loro la luce. Se però nella Sardegna dei primi Duemila e nel giro di amicizie dei miei genitori la nostra situazione era piuttosto comune e nemmeno così disastrosa, è stato quando ho messo il naso fuori di casa che mi sono resa conto che le differenze tra le persone che ho conosciuto e me sono abissali. Solo allora sono riuscita a mettere in prospettiva la mia infanzia e ho realizzato quanto fossi svantaggiata rispetto alla media.
Le prime due decadi della mia vita le ho passate in una cittadina della Sardegna, di quelle che si sentono più fighe rispetto all'entroterra ma bruciano di invidia per l'economia della Costa Smeralda, e sono stata una bambina a cui non è mancato niente di fondamentale.
Per un certo periodo avevamo navigato a pelo appena sopra la famigerata soglia della povertà. Poi i proprietari dell'azienda dove lavorava mia madre hanno venduto e "licenziato" i "dipendenti", e lei, che dopo la separazione si era occupata praticamente da sola del mio sostentamento, si è trovata senza niente. La "buona uscita" l'abbiamo consumata nell'anno successivo, mentre lei cercava inutilmente un altro "posto fisso"—la sovrabbondanza di virgolette serva a indicare la totale dimensione in nero di tutta la faccenda. Mio padre, artigiano e disoccupato a singhiozzi, ci dava un po' di soldi quando poteva—e quando non ce ne dava, potevi star certa che proprio non ne aveva.
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Immagine via Vice, la ragazza in foto non è l'autrice.