Talvolta, nell’utilizzo comune, tendiamo a equivocare le differenti accezioni del termine progresso. Facendo riferimento al suo significato più intrinseco, siamo soliti accomunare gli sviluppi raggiunti in ambito culturale, tecnologico e scientifico con quelli conseguiti in campo economico e sociale.
Se prendiamo per buone le parole di un grande statista americano come Franklin Delano Roosevelt, il quale asseriva che “la prova del progresso non è quella di accrescere la ricchezza di chi ha tanto, ma di dare abbastanza a chi ha troppo poco”, ci sentiamo in grado di affermare che quelli che stiamo vivendo siano anni caratterizzati dal progresso?
Per rispondere a questa domanda occorre scrutare tra i dati. Sebbene in Italia la ricchezza complessiva sia cresciuta di ben 4.528 miliardi di dollari tra il 2000 e il 2015, quest’incremento è stato quasi totale appannaggio di una piccola percentuale di persone. Circa la metà (53,7%), infatti, è andata al 10% più ricco della popolazione, mentre la metà più povera degli italiani ha dovuto accontentarsi di poco meno dell’8%. Per darvi un’idea ancora più esaustiva del fenomeno, basta pensare che l’1% più facoltoso della popolazione italiana, che detiene attualmente un quarto della ricchezza nazionale, ha beneficiato in questi anni di un incremento di ricchezza 20 volte superiore a quello riservato al 20% più povero.
Al contempo, l’erosione del potere d’acquisto, la disoccupazione che si attesta stabilmente intorno all’11% e una consolidata situazione di precarietà nel mercato del lavoro hanno trascinato circa 10 milioni di italiani a vivere sotto la soglia di povertà relativa e 4 milioni 598 sotto quella assoluta.
In virtù di quanto detto, vi sentite ancora di affermare che questi siano anni di progresso?