-Natascia Talloru*-
E’ noto a tutti oramai quanto possa valere l’utilità del web nello sviluppo delle relazioni umane e nella diffusione della cultura. In altri termini ci troviamo ad essere (o non essere) nell’era 2.0, ciò vuol dire vivere nel terzo millennio utilizzando quotidianamente internet e quindi cliccare,twittare, postare, taggare, visualizzare, commentare e così via dicendo. Significa forse non avere più pazienza, non avere più tempo, con la pretesa che tutto sia rapido, sintetico, superficiale, possibilmente distante quanto basta da non addentrarsi troppo, tra il paradossale binomio del “scusi posso disturbare” al "invado totalmente la tua privacy”.
E’ l'era dell’immediatezza dove in un click abbiamo accesso ad una serie di dati, informazioni, raggiungiamo persone in un mondo virtuale di facili e incorporei pensieri, di nuove relazioni, di possibilità aperte a tutti, o quasi. Il 2.0 di nuove banalità globalizzate, amicizie eteree e temporanee, antagoniste del prendersi per mano, dell’osservarsi, del sentire. 2.0 di app dagli utilizzi più improbabili: app per le coccole, app per mangiare, app per fare l’amore. Parrebbe quasi una fuga dalla realtà, perlomeno da una realtà per le generazioni precedenti, quelle 1.9, tangibile e che per le successive non è mai esistita, non la si conosce.
Una volta c’era il secolo XX, quello della scuola, del sapere e del turismo di massa, dei mass media e delle proteste di massa e oggi c’è il XXI, il secolo delle persone, dell’insofferenza nella continua ricerca di un individualismo nella massa, del bisogno di essere accettati. D’altra parte però c’è chi vede nella rete un potenziale per produrre conoscenza. E’ sufficiente un motore di ricerca per ritrovarci facilmente in un mare di informazioni che in altri tempi avremmo ottenuto dopo ore passate sopra pagine impolverate all’interno di una vecchia biblioteca. Forse siamo appena agli inizi di un dibattito che ci coinvolgerà per tanti anni ancora, ma al momento c’è chi pensa si tratti solamente di un’illusione, quella di possedere il mondo in una mano, di poter soddisfare qualsiasi forma di curiosità convincendoci di acquisire un’intelligenza superiore.
Ci stiamo abituando a diventare tuttologi, megalomani dell’informazione, medici di noi stessi, esperti in legge, ricercando anche argomenti estremamente complessi. Come se non bastasse, chiamando in causa la scienza, sembra che il nostro cervello in realtà riesca a gestire solamente pochissimi canali e attualmente si stia riprogrammando per adattarsi al nuovo sistema di attività eseguite contemporaneamente, di distrazioni, di multitasking creato dalla rete e dalle nuove tecnologie. In poche parole si sopravvaluta l’apprendimento acquisito e piuttosto che renderci più produttivi ed efficienti siamo destinati ad un calo della concentrazione e della capacità di selezionare le priorità, ergo il cervello non farebbe nemmeno in tempo a sedimentare le nuove nozioni.
Difficile prevedere se di questo passo saremo uomini liberi o schiavi moderni, senza rotta né destinazioni, ma a tal proposito riporto un pensiero estratto dal libro “Il web ci rende liberi?” di Gianni Riotta, editorialista de La Stampa: « è possibile che il web ci renda liberi solo nella misura in cui noi riusciremo a renderlo libero. Il web ci renderà ignoranti se noi lo rendiamo ignorante. Il web sarà Inferno o Paradiso se a programmarlo saranno Demoni o Angeli. Sarà invece solo umano se a costruirlo saremo noi esseri umani».
*FocuSardegna