Faceva freddo quel 1 gennaio 1944, ma Dionigi Puddu non ci fece così caso. Si strinse nel suo cappotto grigio verde e continuò a camminare. Aveva preso il treno da Cagliari, lasciandosi le macerie del capoluogo alle spalle e prendendo la via dei tanti sfollati che ripiegavano verso l'interno. Arrivò a Isili, con il treno, e dovette proseguire per Seulo, per tornare a casa. Quel tratto, percorso a piedi a passo svelto, sembrava interminabile.
Aveva avuto paura, in quei quattro anni di guerra mentre il pensiero dei genitori era tornato più di una volta ma era prevalso in lui l'ottimismo di chi voleva tornare a rivedere i sorrisi dei suoi cari.
La sua era una famiglia di torronai, dal 1895. Il padre, Salvatore Puddu, coltivava il grano a Seulo, dove si pescavano, in gran quantità, anguille e trote. Aveva combattuto nella prima guerra mondiale e, in più occasioni, mentre le lacrime gli rigavano il volto, aveva raccontato de "sa famine 'e Spoleto" quando tutti loro, allo stremo delle forze, raccoglievano le bucce delle patate per poter mangiare qualcosa.
Ci aveva ripensato, Dionigi, a "sa famine 'e Spoleto" quando dopo la ritirata anche lui, insieme ad altri, patì la fame.
Erano tantissimi i pensieri che gli affollavano la mente, quel primo dell'anno, quando la guerra ancora non era finita. Ancora tanti eventi avrebbero scosso l'Italia ma lui poteva dirsi sicuro: stava tornando ad abbracciare la sua famiglia.
«Sono passato in mezzo a tre fuochi, quello inglese, americano e tedesco. Fino all'ultimo ho avuto paura di morire, paura di non rivedere il sorriso di mamma. Sapevamo già da subito che avremmo perso la guerra. L'Italia non aveva niente, e noi ci limitavamo ad eseguire gli ordini. È la legge della guerra alla quale nessuno ha mai pensato di ribellarsi».
Dionigi raccontava tutto questo, trascinandoci nel suo flusso, lucidissimo, di ricordi e vicende nella veranda della sua casa, a S. Maria Navarrese, nell’Ogliastra della longevità, circondato dai 9 figli, 17 nipoti e 3 pronipoti. Ha 97 anni, la pelle perfetta e un sorriso contagioso, quando ricorda che fino a qualche mese prima guidava ancora la macchina, che lascia spazio alla fierezza dello sguardo nel narrare le iniziative portate avanti da sindaco, non uno qualsiasi ma uno tra i sindaci storici del paese di Triei.
Un mandato lungo sette anni nel corso dei quali si fece amare per risolvere una serie di questioni che, da troppo tempo,erano bloccate. «Triei era senza scuole medie! Quando Segni venne a Nuoro, riunì il consiglio comunale e preparai una delibera che consegnai, in busta da lettera al Presidente. La risposta da Roma arrivò presto e anche il nostro paese ebbe la sua scuola. Feci asfaltare le strade – ricordo benissimo quel giorno - e arrivare un medico tutto per Triei mentre prima veniva da Baunei. La pulizia del paese era, poi, assicurata perché tutti gli abitanti pulivano il loro pezzo di strada…pena la multa. A Triei in ogni casa dove c’era il magazzino, ci si incontrava per parlare di politica, società… oggi, purtroppo, ai magazzini non ci va nessuno.»
Per queste e altre azioni il paese lo ricorda con grande affetto. Ad affascinare è, soprattutto, il suo ricordo dei quattro anni passati in guerra, testimone di avvenimenti e vicende che hanno segnato la memoria di tutta la nostra Nazione (sbarco in Sicilia, fuga di Vittorio Emanuele III e ritirata, in primis) e che, oggi, in occasione della Festa della Liberazione lo vedono, fieramente, portare la bandiera.
Dionigi partiva il 1 gennaio del 1940, a 21 anni e questa è, in un flusso di pensieri che solo la memoria può offrire, la sua storia così come abbiamo avuto la fortuna di ascoltarla.
«Io ho sempre pensato che uno che partiva in guerra moriva. Avevo ricevuto la cartolina di precetto di partenza, così mi presentai a Cagliari, nella caserma aeronautica: ero aviere scelto. Da lì, sono partito a Roma e arrivato all’aeroporto Francesco Baracca dove ho fatto anche il reclutamento. Eravamo tantissimi e, per 40 giorni, siamo rimasti nel forte Michelangelo, senza mai uscire sino al momento del giuramento. Feci un corso con macchine tipo la 626, a motore interno. Da lì, sono andato a fare il corso a Mirafiori per poter guidare mezzi che passassero anche sulla sabbia. Ero autista di un autotreno radiotrasmittente: su questo mezzo c’erano un sottoufficiale, un marconista e un elettricista. Quando venimmo trasferiti a Catania venne anche il X gruppo caccia: due squadriglie per gruppo ogni dieci aerei con a comando un colonnello e un capitano. Mi ricordo che quando partirono in azione per Malta, il colonnello non rientrò e si sparse la voce che era molto esagerato nei modi e che furono i nostri a ucciderlo.
Da Catania venni trasferito a Castelvetrato, poi Combiso. Lì, mentre eravamo tutti in tensione per la paura degli americani, conobbi il Generale Tessoni, mio superiore. Era un bravissimo pilota. Fu lui a darmi la licenza illimitata e ricordo che, a Brindisi, quando mi guardò negli occhi ero talmente emozionato da non avere il coraggio di dargli la mano!
Nell’aria c’era tanta paura per lo sbarco a Gela e a Siracusa. Sapevamo che era questione di giorni ed ecco, una mattina, arrivare 9 fortezze volanti. Eravamo nella periferia di Combiso e, nel prato davanti al viale, i tedeschi posizionavano aerei finti, di legno. Gli spitfire volavano bassissimi. Avevamo paura. Siamo scappati, smontando e lasciandoci dietro il rimorchio dell’autotreno ricetrasmittente. Le informazioni che arrivavano erano tante e confuse. Si diceva che il capitano di squadriglia Membi fosse stato abbattuto mentre si avventava contro le fortezze volanti. Per arrivare a Messina abbiamo percorso una strada di montagna. Gli americani bombardavano in maniera esagerata, per poco non perdevo la vista. Lì ho incontrato un mio compaesano, Benito Murgia che poi trovai di nuovo a Messina, dopo la ritirata. Gli salvai la vita nascondendolo, insieme ad un’altra persona, nella motrice della radiotrasmittente l’unico spazio che siamo riusciti a trovare e che non sarebbe stato perlustrato: ho messo sotto le cuccette i rulli e i miei amici ai due lati opposti, coperti da una coperta e una tenda. I tedeschi hanno spostato la tenda ma, fortunatamente non li hanno visti e, così, sono riuscito a fargli scampare una brutta morte. Intanto, ero rimasto solo, gli altri erano passati con il ferro botte sulla statale. Sono tornato all’ aeroporto e non c’ era nessuno. Mi sono nascosto nelle piante, appena ho sentito gli aerei, lasciando fuori il mio mezzo e son rimasto fermo, sotto dei bustoni di terra e ho aspettato che i miei compagni venissero a cercarmi.
Che brutta la guerra. Noi, poi, sapevamo tutto per radio. Quando l’Italia ha proclamato guerra all’America abbiamo tutti pensato che fossero impazziti. Sarebbe stata una battaglia di morti, solo di morti.
In una trasmissione radio, si parlava, sempre più spesso, di un’arma segreta, una creazione americana che stavano costruendo in Belgio. Le guerre portano solo distruzione. Durante la ritirata, quando non avevamo di che mangiare, con la paura, ho pregato tanto per avere salva la vita e non appena arrivato a Roma, sono andato a confessarmi.
Ma la storia non finisce qui.
Quando gli americani bombardarono San Lorenzo, scappammo subito dall’aeroporto Francesco Baracca e trovammo rifugio a Pontano Borghese nella tenuta di un conte. Ci dava un litro di latte a testa! Eravamo tutti magrissimi dopo giorni e giorni di ritirata passati senza mangiare, non capivamo più niente! Mangiavamo l’anguria… In quel luogo ci volevano bene e immagina che ho pure fatto da testimone al matrimonio di un sottoufficiale di Meana Sardo che mi conobbe proprio lì dal conte.
Ricordo che quando ci trasferirono, prima a Bitonto, vicino a Bari poi a Brindisi dove stavo nel forte della marina, caserma Eden, vidi Vittorio Emanuele che passeggiava con Badoglio. Ormai noi non avevamo neanche armi, c’erano gli americani a fare da protezione.
Noi non comandavamo più niente. Gli americani avevano un sacco di soldi, erano ben vestiti noi, invece, avevamo solo i pidocchi.
Dopo Brindisi, mi diedero licenzia limitata. Stava succedendo qualcosa in alta Italia, al confine con Austria. Avevo però avuto la cartolina di tenermi pronto.
Tornai a Cagliari con un aereo da bombardamento che, per poco, non veniva bombardato dagli americani, convinti fosse tedesco! Da Elmas ci portarono alla stazione in macchina e, preso il treno, scesi a Senorbì dove stava mia cugina, serva di un ingegnere sfollato e i suoi genitori che erano lì per cercare cibo e grano. Da lì, proseguì per Isili e finì la mia esperienza in guerra, iniziata il 1 gennaio del 1940».
Una storia preziosa, quella di Dionigi Puddu che in questo 2014 che ci vedrà ricordare i cento anni trascorsi dall’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale, ha tanto da raccontare.
Una vicenda resa ancora più unica dal modo in cui l’ex sindaco di Triei ne ha fatto dono. Lui che, come ricetta della longevità, insieme all’ottimismo, consigliava il suo piatto preferito, l’arrosto di maiale e capra e due bicchieri di vino - "ma senza ubriacarmi" - ad ogni pasto.
«Morire? No, non vorrei, non ancora», mi disse al momento dei saluti, nell’agosto del 2014, lasciandoci, purtroppo, nel mese di novembre con il ricordo di una bellissima storia di vita.
Mariella Cortes