I neuroni, multiformi cellule del sistema nervoso, sotto il microscopio sembrano una fitta trama di rami intrecciati in un groviglio. In totale ne contiamo quasi cento miliardi e furono osservati per la prima volta da un giovane medico di Pavia, Camillo Golgi, che vinse il premio Nobel per i suoi studi. Da allora sono sempre stati considerati cellule perenni: incapaci cioè di dividersi e rinnovarsi.
Ma oggi grazie alle nuove tecnologie stanno emergendo ulteriori potenzialità: la risonanza magnetica per immagini (Mri) ha consentito la ricostruzione in 3D dell’intera struttura dei neuroni, attraverso la quale si è osservato un accrescimento delle cellule della corteccia cerebrale e un recupero della capacità di differenziarsi.
In particolar modo, queste modifiche, si sono osservate nelle ramificazioni dei neuroni, i cosiddetti dendriti, deputati alla ricezione di informazioni da parte delle cellule vicine; ciò potrà consentire forse in futuro il ricambio di cellule adulte danneggiate. Gli studi evidenziano la presenza di cellule staminali nervose in alcune zone cerebrali le quali non hanno ancora una funzione precisa e che in seguito ad una serie di circostanze, si riattivano e si comportano come se fossero pezzi di ricambio aumentando la probabilità di accrescersi e apportare modifiche positive al tessuto nervoso. Nei laboratori di ricerca di tutto il mondo stanno ancora cercando di capire però cosa spinga queste cellule a modificare la loro struttura e soprattutto perché in un preciso momento della vita di una persona e sotto quali condizioni. In America sono riusciti per la prima volta a moltiplicare singoli neuroni umani trapiantandoli in topi per generare nuovo tessuto nervoso, perfettamente integrato con quello dell’animale.
Dunque rilevando e conoscendo i segnali che spingono queste cellule a moltiplicarsi, si potrebbe isolare un qualsiasi tipo di neurone umano e formare milioni di cellule nuove, utilizzabili per esempio per curare malattie come l’Alzheimer o il morbo di Parkinson, oppure intervenire limitando la naturale demenza senile e l’invecchiamento.
Ma i neuroni riservano anche altre sorprese, sono in grado cioè di guardarsi ed influenzarsi gli uni con gli altri, anche in organismi differenti. Si tratta in questo caso dei cosiddetti neuroni specchio, che accoppiano le nostre azioni a quelle degli altri ed hanno una duplice attività: da un lato si accendono quando un individuo compie un’azione; dall’altro in maniera analoga entrano in funzione ogni volta che vediamo qualcun altro fare lo stesso gesto. Si pensi a delle immagini riflesse che si guardano reciprocamente ad uno specchio e cercano di imitarsi. Questa scoperta stavolta è tutta italiana: un gruppo di studiosi dell’Università di Parma nei primi anni novanta scoprì i neuroni specchio nei macachi ed in seguito furono individuati nell’uomo. L’importanza dei neuroni specchio è legata al fatto che la loro attivazione si verifica anche all’ascolto di suoni e parole. Uno studio olandese apre la strada ad un’ipotesi promettente: un difetto di questi neuroni potrebbe essere alla base dell’autismo, una patologia che oggi più che mai è largamente diffusa tra i bambini, incapaci di comprendere parole e gesti di chi li circonda.
Certamente la struttura ed il funzionamento del sistema nervoso rappresenta ancora un campo di ricerca in via sperimentale e sotto certi versi oscuro, ma si può ipotizzare che alcune delle risposte ai tanti quesiti posti dagli scienziati possano arrivare proprio dalla Sardegna, osservando e portando avanti gli studi sugli ultracentenari. Qual è il segreto della longevità dei nostri anziani? Che ci sia un “risveglio” dei loro neuroni e soprattutto quali sono i fattori che portano questi individui a vivere così a lungo? E’ stato stimato secondo recenti aggiornamenti che la media in Sardegna degli ultracentenari sia di 22 ogni centomila abitanti, contro una media generale nelle altre parti del mondo compresa tra gli 8 e i 10. Gli studiosi hanno evidenziato una serie di fattori fondamentali e il progetto che fino ad ora ha portato alla luce la maggior parte delle informazioni è stato AKeA (A Kent’Annos) diretto dal Prof. Luca Deiana, biologo molecolare dell’ Università di Sassari con la collaborazione del Max-Planck Institute for Demographic Research di Rostock (Germania) e della Duke University (North Carolina, USA). Indubbiamente la posizione geografica della Sardegna ed il territorio per diversi secoli impervio ha favorito una situazione di isolamento che non ha permesso una eterogeneità genetica e antropologica; questo ha portato di conseguenza alla conservazione di certi caratteri che da un lato hanno aumentato l’incidenza di malattie ereditarie (sclerosi multipla, diabete di tipo 1) ma d’altra parte ha consentito l’evolversi di caratteristiche “speciali” che si pensa si possano ricercare negli anziani. Solamente l’Ogliastra ha avuto un elevato numero di ultranovantenni ed ultracentenari nei quali, rilevando il DNA collettivo, si sono riscontrate forti relazioni col sangue degli antichi nuragici.
Durante la propria vita l’uomo subisce progressive modificazioni che si manifestano con una velocità variabile a seconda non solo dei fattori genetici e di come sono programmate le cellule, ma lo stile di vita che la persona ha condotto rappresenta un altro fattore determinante: in Sardegna una dieta sana fatta di prodotti locali, spesso autoprodotti all’interno delle stesse famiglie, potrebbe aver rallentato quei processi di invecchiamento che portano a trasformazioni cerebrali e alla diminuzione delle funzioni intellettive; potrebbe inoltre aver limitato l’incidenza di arteriosclerosi cerebrali e lesioni ischemiche che nel 10% dei casi si traducono in una demenza senile. L’Università di Sassari ha dimostrato recentemente che i prodotti sardi hanno un valore nutrizionale maggiore degli analoghi prodotti venduti nella grande distribuzione. Dunque tutte queste componenti possono aver contribuito all’instaurarsi di un terreno di coltura ottimale favorevole, creando quelle condizioni necessarie per il mantenimento dello stato di salute, stimolando dei processi di auto-guarigione interni attraverso il rallentamento dell’invecchiamento cellulare, o ancora prodotto segnali che hanno preservato il funzionamento del sistema nervoso e stimolato il ricambio cellulare e la riattivazione delle staminali. Mente e corpo non sono due entità separate, comunicano tra loro e scambiano continuamente informazioni di ogni genere, dunque anche il lavoro nei campi, nell’ambito casalingo e la fatica possono aver contribuito a mantenere una forma fisica ottimale, attraverso la produzione di molecole e segnali che si sono trasmessi in tutti i distretti dell’organismo e impressi nella storia genetica di questi individui. Gli ultracentenari sono un esempio di equilibrio ed armonia: il Prof. Deiana sostiene che oltre alla genetica, all’alimentazione e allo stile di vita, l’umore e l’allegria che caratterizzano gli anziani sarebbero altri fattori determinanti e non meno importanti; allo stesso modo il contesto sociale nel quale vivono può influire positivamente in quanto in diversi paesi l’anziano è visto come un saggio e non come un peso.
E se gli studi e i dati sperimentali non fossero sufficienti a convincere i più scettici forse ci si potrebbe soffermare ad ascoltare le parole di alcuni dei protagonisti e darle il loro giusto valore; indubbiamente i nostri antenati rientrano tra le eccellenze sarde e potranno rappresentare ancora un modo per essere conosciuti in tutto il mondo.
Tziu Franciscu, Classe 1905 (Samugheo, OR)
“Non ci arrivano tutti, io ci sono arrivato, non mi sono mai risparmiato, ho sempre lavorato, ma il lavoro allora non ammazzava. Malattie gravi non ne ho mai avuto, solo qualche acciacco. Il berretto mi sta bene o me lo aggiusto?”
Tzia Peppedda, Classe 1906 (Orgosolo, NU)
“Era meglio prima, era più pratica la vita, con meno pretese. Prima bastava che ci fosse un lettino per dormire e non serviva altro. Invece oggi non si sposano neanche più se non hanno le cose fatte a dovere. Io mi sto pigliando il marito, non il mobile, per dire!”
Tzia Rafaela, Classe 1898 (Arzana, OG)
“Ci mandavano a raccogliere il finocchio selvatico. Quando non c’era il finocchio mangiavamo ceci. Altrimenti digiuno. Avrò avuto 3-4 anni, mangiavo erba cipollina e libatheddu, tutti i tipi di piante che riuscivamo a raccogliere. Mi facevo le scorpacciate, e mi hanno sempre fatto star bene, non ho mai avuto mal di stomaco”
Tzia Antonia, Classe 1906 (Samassi, CA)
“Certo, ora mi piace la vita, perché non faccio niente. Però mi piaceva anche quando lavoravo a servizio. Stavo in piedi anche la notte a lavorare, ma volevo vedere le cose fatte, e mi piaceva farle bene. Riguardo alla vita, è meglio adesso si, però d’amore ne avevamo più prima, con la povertà, perché allora i poveri erano molti. Ma oggi, c’è roba da mangiare, ci sono i soldi, c’è tutto, però manca l’amore. Almeno per me, per gli altri non posso parlare.”
Natascia Talloru