Nunc est bibendum (“è arrivato il momento di bere, Orazio, Ode, 1, 37), perché c’è un vino in Sardegna che toglie la tristezza. Certo, potreste trovare quest’affermazione poco originale, o quantomeno applicabile a molti altri vini, come quelli ottimi prodotti dai toscani e dai piemontesi. Ma quello di cui parlo io è un particolare Cannonau, prodotto nella zona di Oliena, che dichiara i suoi intenti fin dal nome: Nepente, dal greco ne che significa “non”, e pentos che significa “tristezza”.
Ovvero, ricomponendo il tutto, “nessuna tristezza”. Il vitigno, importato dalla Spagna e diffuso in molte altre parti della Sardegna, ha trovato nelle campagne di Oliena il clima secco e il terreno sabbioso ideali per un perfetto insediamento. Alto in quanto a gradazione (sui 14,5% vol), è uno degli ammiragli della produzione vinicola di tutta la regione. Di un rosso impenetrabile, secco e corposo, è conosciuto in tutta Italia e all’estero. Il suo nome, legato a vicende misteriose e magiche, proviene da lontano. E’ presente nel libro quarto dell’Odissea, dove si narra di una sostanza che la bella Elena scioglieva nel vino di suo marito Menelao, per liberarlo dalla tristezza.
Chi l’ingoiava, una volta mischiato dentro il cratere,
non avrebbe versato lacrime dalle guance, quel giorno,
neanche se gli fosse morta la madre e il padre,
neanche se gli avessero ucciso davanti, col bronzo,
il fratello o suo figlio, e lui avesse visto cogli occhi.
Anche nel libro secondo delle Storiedi Erodoto si parla di una sostanza chiamata Nepente. Originaria della Valle del Nilo, secondo molti studiosi era uno stupefacente. Questa tesi troverebbe una parziale conferma in Plinio il Vecchio, il quale associa la droga descritta nel libro di Omero a un infuso egizio “quae vino injecta hilaritatem inducit”(che messo nel vino induce allegria). Secondo la suggestiva ipotesi di Pietro della Valle, espressa nei Viaggi in Turchia, Persia ed India (1650), il Nepente era semplicemente un tipo di caffè che, mischiato al vino, aveva effetti inebrianti. Questa teoria venne presa tanto sul serio che nel secolo successivo fu raccolta da Diderot e D’Alembert nella Encyclopédie. Nel 1825 Samuel Hahnemman tira nuovamente in ballo la più credibile ipotesi della sostanza stupefacente e la individua nell’oppio.Altri, molto più semplicemente, ritenevano il Nepente un’antica bevanda. Una bevanda speciale, certo, ma comunque solo una bevanda.
Furono alcune di queste testimonianze che indussero Gabriele D’Annunzio a ribattezzare “Nepente” il buon vino rosso di Oliena. E’ infatti certo che il poeta conoscesse la sua storia, tanto da citare nella Fedra, del 1909, “il farmaco d’Egitto che dà l’oblio dei mali”. Molti anni prima, un giovane D’Annunzio si era recato in Sardegna insieme al giornalista Edoardo Scarfoglio e al poeta Cesare Pascarella. Arrivato a Oliena, seppur astemio, si era fatto stregare dal semplice odore del vino locale. Il ricordo di quel Cannonau restò a lungo vivo nella mente del poeta, tanto che molti anni dopo lo descrisse sul Corriere della Sera, in una lettera aperta indirizzata all’amico Hans Barth, giornalista tedesco, corrispondente dall’Italia e autore di una Guida del perfetto bevitore e di un Itinerario bacchico.
L’articolo, del 1909, fece conoscere per la prima volta, al di fuori dell’isola, il Cannonau di Oliena; da quel momento in poi noto come Nepente:
Ma se pur vorrete sostare alla foce d’Arno, qui dove fra tanta acqua dolce e amara vive il vostro amico scandolezzatore e attende alla sua opera corruttrice che anche una volta è per offendere la veneranda virtù dei contemporanei, io vi prometto di sacrificare alla vostra sete un boccione d’olente vino d’Oliena serbato da moltissimi anni in memoria della più vasta sbornia di cui sia stato io testimone e complice.
Non conoscete il Nepente di Oliena neppure per fama?
Ahi, lasso! Io son certo che, se ne beveste un sorso, non vorreste mai più partirvi dall’ombra delle candide rupi, e scegliereste per vostro eremo una di quelle cellette scarpellate nel macigno che i Sardi chiamano Domos de Janas, per quivi spugnosamente vivere in estasi fra caratello e quarteruolo.
Io non lo conosco se non all’odore: e l’odore, indicibile, bastò a inebriarmi.
Eravamo clerici vagantes per un selvatico maggio di Sardegna, io, Edoardo Scarfoglio e Cesare Pascarella, or è gran tempo, quando giungemmo nella patria del rimatore Raimondo Congiu piena di pastori e di tessitrici, ricca d’olio e di miele, ospitale tra i Sepolcri dei Giganti e le Case delle Fate. Subito i maggiorenti del popolo ci vennero incontro su la via come a ospiti ignoti; e ciascuno volle farci gli onori della sua soglia, a gara.
Ah, mio sitibondo Hans Barth, come le vostre nari sagaci avrebbero palpitato allorché il rosso Nepente sgorgò dal vetro con quel gorgoglio che suol trarvi dal gorgozzule quei “certi amorevoli scrocchi” – parla il nostro Firenzuola! – Avete nel cuore qualcuna di quelle Odi Purpuree di Hafiz che cantano il vino e la rosa? Ci parve che l’anima stessa dell’Anacreonte persiano emanasse dalla tazza colma, col colore del fuoco e con l’odore d’un profondo roseto. Certo, chi beve quel vino non ha bisogno d’inghirlandarsi.
Il poeta epico di Villa Gloria, che allora col Morto de Campagna e con la Serenata era entrato nell’arte giovanissimo maestro per la porta della perfezione, non ebbe cuore di respingere un dono di ospitalità così fatto. E io, ebro già dell’odore, lo pregavo di bere per me; e simile lo pregava il nostro compagno. Cosicché per ogni dimora egli ritualmente votava tre tazze. E di tre in tre compose nel suo cuore le terzine di molti mirabili sonetti che non conosceremo giammai.
Ora accadde che nell’ultima casa, affacciata sopra un uliveto più bello e più santo di quelli che ombrano la vita di Delfo, domandando l’ospite a ciascuno di noi notizie del nostro paese natale, io fossi da lui riconosciuto come il figlio del signore che nel lontano Abruzzo per singolari vicende l’aveva accolto secondo l’antico nostro costume liberale. Commosso dal ricordo sino alle lacrime, se bene avesse un occhio solo, egli si profuse in carezze verso me e i compagni con tanto calore ch’io mi sentii perduto. Ma il Pasca votò ancora una volta tre e tre coppe. E Io m’ebbi in dono una pelle di cignale, un lungo fucile damaschinato d’argento e un caratello. Quando uscimmo per raggiungere la nostra vettura, il generosissimo sostituto era già trasformato in prisco Quirite e voleva lasciar su la via le vili brache polverose per vestire a guisa di toga illustre il cuoio irsuto.
Gli persuademmo ch’egli fosse già togato. E allora meravigliosamente sragionando, come s’egli avesse consuetudine della lunga veste, faceva l’atto di accogliere al petto le pieghe della destra parte e di comporre sul braccio sinistro quella specie di tracolla che dicevasi in Roma il seno della toga. E in quel seno immaginario, pieno d’una inesausta eloquenza, fu di certo concepita primamente la Storia romana. Esso poi e il Quirite si riempirono d’un letargo che durò due giorni.
Ma in tutto (udite, luterano ligio alle regole papali!) la sbornia d’Oliena fu quadriurna.
E “Iam foetet”dice Marta a Gesù, come viene tolta la pietra sopra Lazzaro giacente da quattro dì. Ma il Pasca dopo quattro dì auliva il roseto di Hafiz. “Aduc bene olet!”.
Andate dunque da Monterosso di Mare a Oliena d’Oltremare, valicando il Tirreno sino al Golfo di Orosei, magari in velivolo, o stirpe di Otto Lilienthal.
Son certo che là è la meta sublime delle vostre peregrinazioni eloquenti; là è l’estasi e il silenzio, in una Casa di Fata e in un Sepolcro di Gigante. E il ricordo di tutte le taverne laudate, dalla Verona della Luna, alla Capri di Herman Moll, sarà vanito.
E, preludendo e interludendo su le canne della launedda paesana, voi canterete i versetti del salmo supremo, a imitazione di Minatchehr.
A te consacro, vino insulare, il mio corpo e il mio spirito ultimamente.
Il Sire Iddio ti dona a me, perché i piaceri del mio spirito e del mio corpo sieno inimitabili.
Possa tu senza tregua fluire dal quarteruolo alla coppa e dalla coppa al gorgozzule.
Possa io fino all’ultimo respiro rallegrarmi dell’odor tuo, e del tuo colore avere il mio naso per sempre vermiglio.
E, come il mio spirito abbandoni il mio corpo, in copia di te sia lavata la mia spoglia, e di pampani avvolta, e colcata in terra a pie’ d’una vite grave di grappoli; che miglior sede non v’ha per attendere il Giorno del Giudizio.
Ad multos annos, ilare amico, finché non abbiate bevuto almeno tanto vin mero quanto d’acqua torba reca il Cedrino in piena di maggio per la terra ospite!
Valeas foreas rubeas, multibibe doctor.
Ave.
(Gabriele D’Annunzio, Marina di Pisa – ottobre 1909)
Dunque, prendete e bevetene tutti, aggiungerei io in pieno spirito biblico, perché chi beve vino rosso, in Sardegna, campa cent’anni…
Da “101 cose da fare in Sardegna almeno una volta nella vita” di Gianmichele Lisai