In Sardegna, trovare indigeni che non si nutrano di carne è impresa ardua. Non più impossibile, certo. Qualche decennio di civilizzazione ha portato scempi come strade asfaltate, villette a schiera e integerrimi vegetariani. Ma la mia memoria non cancellerà mail il detto: “Di tutti i legumi, quello che preferisco è la salsiccia”. Ho provato a scoprirne la provenienza. Ho provate a trovarne traccia in altre culture gastronomiche. Nella grassa Emilia Romagna, per esempio, dove il maiale regna sovrano. Ma niente. Questo modo di dire non l’ho mai sentito uscire dalla bocca di qualcuno che non fosse sardo. Lo usano i vecchi, soprattutto.
Di fatto, in Sardegna si mangiano moltissime verdure, ortaggi e frutta, ma solo per accompagnare la carne. Sia chiaro, ho conosciuto personalmente alcuni sardi vegetariani: ne esiste uno sparuto manipolo. Ma ho conosciuto anche vegetariani continentali che, trovandosi davanti un maialino sardo da latte, croccante ma tenero allo stesso tempo e cotto come si deve, hanno infranto il loro voto di pacifica convivenza con gli animali. Certo, queste persone erano evidentemente poco determinate nella loro scelta, ma avete mai provato a mangiare il porcetto sardo?
Nel caso la risposta sia negativa, dovete affrettarvi a rimediare al più presto. Una volta arrivati in Sardegna non incontrerete difficoltà: viene cucinato in ogni località dell’isola, dal più remoto anfratto dell’entroterra al più appariscente lembo di costa.
L’animale prescelto per il sacrificio, lungo l’arco della sua breve vita (poco più di un mese), deve essere stato nutrito unicamente con latte materno e deve aver raggiunto il peso ideale di quattro chili. Si possono cucinare anche maialetti di peso leggermente inferiore, dalle carni un po’ meno saporite ma assai più tenere; o maialetti di peso appena superiore, intorno ai sei chili, con carni più dure e sapori più intensi. Il gusto può variare anche a seconda della provenienza, del tipo di alimentazione della madre e della tecnica utilizzata per bruciare la cotenna. Il metodo migliore, dopo aver eliminato le setole maggiori con l’acqua bollente o raschiando la pelle, è quello di utilizzare un fuoco acceso con arbusti locali, come mirto e cisto. In alternativa, però, si può tollerare anche il più moderno sistema della fiamma a gas.
Le tecniche di cottura sono principalmente due. Quella allo spiedo, ampiamente diffusa su tutta l’isola, e quella dell’interrato, ormai quasi estinta, e principalmente barbaricina. Vanno provate entrambe, per poterle poi paragonare con cognizione di causa. Ma non c’è confronto che tenga: è una partita pareggiata in partenza.
Nel primo caso il maialetto, svuotato delle interiora (che non si buttano ma vengono utilizzate a parte, ad esempio per un’ottima coratella), lavato e abbondantemente salato, viene infilzato con uno spiedo, tradizionalmente in legno di corbezzolo, e sistemato sulla brace. Inizialmente va tenuto a una distanza superiore a quella necessaria per la cottura. Questa fase fondamentale ha il solo scopo di far rosolare la carne, soprattutto il ventre dell’animale. Ottenuto questo risultato si procede alla cottura vera e propria. Il porcetto viene quindi avvicinato alle braci, a una distanza di circa cinquanta centimetri, a fatto arrostire molto lentamente. Per ottenere una cottura omogenea e la progressiva doratura della cotenna va rigirato di continuo. Di tanto in tanto, per insaporire ulteriormente la carne di per sé già gustosissima, la si può irrorare con gocce di lardo sciolte dal fuoco. A fine cottura, il porcetto viene salato nuovamente.
Tutt’altro iter prevede il metodo della sepoltura. Forse più affascinante, in quanto orami divenuto una rarità (ignorato perfino da molti sardi, soprattutto nelle coste del Nord), deriva dall’antica necessità che avevano banditi, pastori e bracconieri di cucinare l’animale (non solo il porcetto) in segreto. Questo tipo di cottura, utilizzato principalmente nel Nuorese, prevede che si scavi una fossa al cui interno si mette ad ardere della legna aromatica, ad esempio rami di mirto privati delle bacche e delle foglie. La brace che si forma viene poi coperta da uno strato di spezie: rosmarino, timo, ma principalmente foglie di mirto. A questo punto si cala nella buca l’animale, privato delle interiora, lavato e ovviamente ben salato. Poi si isola il tutto con un altro strato di erbe aromatiche, tizzoni ardenti e pietre. Il forno naturale che si è così creato viene quindi coperto con la terra. La cottura è già iniziata, e perché sia ultimata ci vorranno circa sette ore di paziente attesa. Ma alla fine, parola mia, sarete ripagati del sacrificio.
Questo sistema di cottura , ancor più di rado, viene utilizzato per una sorta di arrosto a scatole cinesi, nel quale si cucinano diversi animali uno dentro l’altro. Ad esempio, si prende un vitello, lo si sventra e lo si riempie con un muflone, a sua volta sventrato e farcito di un agnello contenente una lepre…Il ventaglio delle combinazioni potrebbe essere infinito. Tutto poi viene tenuto assieme con uno spago e cotto secondo la stessa procedura del porcetto interrato.
Tornando a quest’ultimo, chiaramente, può essere preparato anche al forno, con ottimi risultati. Certo, non si avvicineranno mai a quelli della cottura allo spiedo eppure vale la pena provare anche questa terza via gastronomica. Più simile all’interrato, ma non altrettanto buono, sarà comunque meglio che non mangiarlo affatto. Servito su un tappeto di mirto, dentro una corteccia di sughera, farà sempre la sua porca figura.
Un tempo, c’era anche un’altra usanza. Quando il porcetto veniva sgozzato se ne raccoglieva il sangue in una ciotola. Dopodiché, quello stesso sangue veniva utilizzato per tinteggiare di rosso, con un pennello, la cotenna pallida, prima che il maialino fosse conficcato nello spiedo e messo a cuocere. Questo rito, forse ai tempi della peste suina, venne proibito e oggi si è praticamente estinto, salvo in rari casi di pastori che lo mantengono in vita per loro stessi e i loro ospiti.
Quindi, se ne avete la possibilità, fatevi invitare a cena da qualche anziano pastore che non abbia perduto le buone vecchie maniere, e accompagnate tutto con un buon Nepente di Oliena.
Da “101 cose da fare in Sardegna almeno una volta nella vita” di Gianmichele Lisai