di DANILO LAMPIS*

Uno dei principali indicatori per valutare lo stato di salute di una democrazia e del suo sistema economico e sociale, è il numero di persone che vengono perse dalla scuola e dal sistema formativo nel suo complesso. La Sardegna non è in forma: se dovessimo mutuare il linguaggio utilizzato per la crisi epidemiologica, viviamo nella zona rossa per quanto riguarda i tassi di abbandono scolastico e povertà educativa.

Gli ultimi dati ci raccontano che il 23% dei giovani tra i 18 e i 24 anni abbandona gli studi con in tasca il solo titolo di scuola secondaria di primo grado. A questo dato sfugge la dispersione “implicita”, indicante gli studenti che, pur conseguendo un titolo di scuola secondaria di secondo grado, registrano un livello di competenze che corrisponde agli obiettivi formativi previsti per gli studenti di “terza media”, non arrivando al livello 3 nelle prove di Italiano e Matematica dell’Invalsi e non raggiungendo il livello B1 nella lettura e nell’ascolto in Inglese. Sommando questi dati, la Sardegna conquista il podio nazionale della dispersione scolastica, con il 37,4% di giovani entrati in dispersione che diventano il 42,9% in provincia di Nuoro.

Perché l’isola fatica a trovare una cura per questo drammatico fenomeno?

1) Il costo delle disuguaglianze sulla pelle dei giovani sardi e sul futuro dell’isola

Come evidenziato dall’indicatore ESCS (Economic Social Cultural Status index), la condizione economica, sociale e culturale delle famiglie determina mediamente il successo formativo dei figli. L’isola non può che confermare negativamente questa correlazione, con un Pil pari al 70% della media europea, la disoccupazione al 15%, il 42% degli studenti che vive in famiglie in cui il titolo di studio dalla madre o dal padre è quello della scuola secondaria inferiore – contro il 41% del Mezzogiorno, il 22% al Nord e il 25% al Centro – e solo il 15% delle famiglie in cui almeno uno dei genitori è in possesso della laurea – contro il 16% nel Mezzogiorno e il 22% al Nord e il 25% nel Centro (fonte 27° Rapporto CREnOS). Sono dati che illuminano alcune facce di una profonda e strutturale disuguaglianza territoriale tra i centri e le periferie economiche europee, tra Nord e Sud con isole, ma anche all’interno della stessa Sardegna. Come illustrato dal Prof. Marco Pitzalis in una recente giornata di studi organizzata dall’Istituto Gramsci della Sardegna, esiste una rapporto tra la presenza delle scuole secondarie di secondo grado sul territorio e il tasso di diplomati: nei comuni dove non c’è neanche una scuola, il tasso di diplomati raggiunge il 56%, mentre in quelli con un’offerta formativa completa il 64%. Dunque, vivere nelle aree rurali comporta automaticamente un’ulteriore marginalità di tipo educativo, che si somma alle disuguaglianze di cui sopra e si sostanzia in una limitata possibilità di scelta del percorso formativo, nei maggiori costi per i trasporti e in abbandoni scolastici più frequenti.

Tali disuguaglianze si riproducono sulle biografie di migliaia di giovani, influenzando gli esiti del percorso formativo, e in generale impattano sulle opportunità di sviluppo economico, sociale e culturale dell’isola. Infatti, se la filiera educativa soffre maggiormente nel passaggio determinante della scuola secondaria di secondo grado, il fallimento dei livelli superiori è scontato. La Sardegna risulta 229esima sulle 241 regioni censite nell’Europa a 27 membri in quanto a percentuale di laureati tra i 30 e i 34 anni, 218esima per quanto riguarda la percentuale di scienziati e ingegneri sulla popolazione attiva, 140esima su 198 regioni per le quali è disponibile il dato per il 2017 in investimenti in Ricerca e Sviluppo, ultima regione in Italia per apporto privato negli investimenti in ricerca (fonte CRENoS).

Come indica ogni anno il rapporto Almalaurea, avere un capitale umano così debole significa avere un tessuto produttivo statico, povero e frammentato, pressoché incapace di fare innovazioni di processo e di prodotto, di perseguire gli obiettivi della sostenibilità ecologica e sociale sfruttando appieno la rivoluzione tecnologica, di investire sulla formazione e il benessere di chi lavora, di competere nei mercati sulla qualità dei beni e dei servizi offerti, di cooperare e internazionalizzarsi. Significa essere destinati a un ruolo di dipendenza e subalternità dal punto di vista economico e sociale, che va di pari passo all’incancrenirsi di una situazione di crisi democratica che si mostra nella disaffezione verso la cosa pubblica, nella mancanza di strumenti culturali diffusi e utili ad affrontare le sfide del vivere comune, nella riproduzione di una classe dirigente incapace di perseguire una modernizzazione endogena dell’isola.

 2) Creare nuovo lavoro e liberare l’accesso ai saperi e alla cultura

Appare scontato evidenziare quanto l’abbattimento delle disuguaglianze di reddito, culturali e territoriali sopra richiamate risulti decisivo per contrastare la dispersione scolastica e la povertà educativa. Un ruolo importante lo dovranno giocare le risorse e le linee d’azione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, come quelli della nuova programmazione comunitaria 2021-2027. Su queste, la Sardegna deve mobilitarsi affinché si concretizzi un cambio di passo radicale. Serve che si strutturi un piano per il lavoro che, accanto al rilancio delle infrastrutture materiali e immateriali e dei servizi pubblici nei territori, progetti e stimoli la progressiva definizione di un nuovo modello di sviluppo finalmente ancorato alle peculiarità produttive, ambientali e culturali dell’isola, animato dalle attività che puntano sulla qualità del lavoro, sull’innovazione tecnologica e digitale, sul benessere e la formazione delle lavoratrici e dei lavoratori, su produzioni e servizi ecologicamente sostenibili e socialmente impattanti. Al tempo stesso servono politiche di welfare universalistiche, che dismettano approcci passivizzanti puntando a favorire l’autodeterminazione delle persone dal punto di vista del reddito, ma soprattutto sul piano delle competenze lavorative e della cittadinanza attiva. Politiche attivanti, che guardino prioritariamente al 27,7% dei giovani che non studiano, non lavorano e non investono nella formazione professionale.

In secondo luogo, bisogna favorire il libero accesso al sapere e alla cultura, a partire dall’eliminazione dei costi che purtroppo le famiglie sono costrette a sostenere per gli studi dei figli. Serve una legge regionale sul diritto allo studio all’avanguardia che superi il testo attuale del 1984, con forme di reddito diretto e indiretto per i soggetti in formazione, borse di studio per una platea più ampia fondate sul principio reddituale, un sistema regionale di comodato d’uso per i libri di testo, sportelli di orientamento formativo e lavorativo e altre prestazioni e servizi previsti dalle leggi regionali più avanzate. Accanto a questa, serve un piano per la mobilità, per connettere i paesi e le città, favorendo le opportunità di studio, incontro e cultura dei giovani.

 3) Portare la Sardegna a scuola, portare la scuola in Sardegna

Nonostante la professionalità e la forza di volontà di tantissimi docenti, la scuola italiana perde troppi giovani non solo per i problemi materiali di cui sopra, ma anche per tante altre storiche problematiche, come la didattica ancora troppo trasmissiva, nozionistica e cattedratica, una valutazione spesso punitiva e poco diacronica e positiva, l’organizzazione dei cicli scolastici improntati a un modello gentiliano, gli organi collegiali sempre più depotenziati e via dicendo. Queste e altre questioni meritano ben altro approfondimento e chiamano a coraggiose azioni di riforma sul piano nazionale. In questa sede, ci concentriamo su una particolarità storica dell’isola – che contestualmente impone delle risposte peculiari – che ha a che fare con i saperi, con ciò che si studia e ciò di cui si fa esperienza. Oggi la scuola italiana in Sardegna perde troppi giovani anche perché, tra le sue mancanze, non include i lavori, i saperi, la storia, la lingua, la cultura e le peculiarità ambientali della Sardegna all’interno dei suoi programmi e luoghi di apprendimento “ufficiali”. Così facendo, allontana i giovani che crescono con un habitus maggiormente legato a tutti i settori più “tradizionali” dell’economia isolana e al loro mondo di significanti, saperi e saper fare. Essi, non vedono nei contenuti, nei linguaggi e nelle esperienze offerte un riconoscimento – critico ma autentico – del contesto sociale e culturale dal quale provengono, il quale determina in larga misura lo stile di apprendimento. Così, incentivati da una valutazione spesso nozionistica e punitiva, scelgono troppo spesso di lasciare la scuola.

Non possiamo più permetterci di non valorizzare questi e altri mondi, facendo sognare agli studenti soltanto dimensioni e lavori lontani dal contesto isolano, invece di sforzarci di portare il mondo qui e mischiarlo produttivamente con ciò che c’è. E il tema non è da ascrivere esclusivamente all’istruzione tecnica e alla formazione professionale: coinvolge anche i licei, che sfornano giovani con tante conoscenze ma purtroppo largamente inconsapevoli del luogo in cui vivono e crescono, delle potenzialità inespresse e da sprigionare. L’impressione è che i programmi svolgano sì una funzione di accrescimento culturale, ma che al tempo stesso portino a uno sradicamento acritico verso tutto ciò che riguarda il contesto materiale e immateriale sardo.

C’è bisogno di una scuola che semini invece che allontanare e sradicare, favorendo lo spopolamento e i fenomeni di malessere sociale e culturale. Lo si può fare mettendo in discussione il “cosa” si studia e il “come” lo si fa, sfruttando tutti i margini permessi dall’autonomia scolastica per costruire piani triennali dell’offerta formativa dove, accanto ai saperi e alle competenze generali, siano garantiti quelli “contestuali” legati alle peculiarità dell’isola e dei suoi diversi territori, alla valorizzazione innovativa della memoria comunitaria sempre meno trasmessa e a rischio di oblio. Dalla biblioteca all’attività produttiva, dalla vigna al laboratorio artigianale, le menti, il cuore e le mani della Sardegna devono entrare a far parte di un progetto integrato di istruzione e formazione, per cambiare la scuola ed essere da essa cambiati.

La nuova scuola di Sardegna dovrà stimolare i sogni dei figli degli ingegneri, medici o dipendenti pubblici ma anche dei i figli degli artigiani, degli agricoltori o dei pastori, ai quali devono essere offerti tutti gli strumenti, le conoscenze e le esperienze utili a immaginare concretamente un miglioramento delle attività svolte dai genitori – che in molti contesti sono dei presìdi di restanza contro la contrazione demografica –, o inventarne di nuove legate alle potenzialità dell’isola.

 

4) Verso una proposta di riforma per una scuola sarda-globale

Nulla potrà mai cambiare se si attende improduttivamente che si muova qualcun altro al posto nostro. L’articolo 5 dello Statuto Speciale prevede la facoltà per la Regione di adattare alle sue particolari esigenze le disposizioni delle leggi della Repubblica, emanando norme di integrazione ed attuazione sull’istruzione di ogni ordine e grado. Finora questa potestà legislativa concorrente non è mai stata sfruttata. Se il governo regionale si convincesse dell’importanza strategica di riformare la scuola e tutta la filiera educativa, svilupperebbe nei prossimi anni una proposta complessiva sulla quale poi intavolare una discussione serrata col Ministero dell’Istruzione. Purtroppo, leggendo le dichiarazioni programmatiche di Solinas – dove la parola “scuola” compare una sola volta e “istruzione” neanche una – e il Programma Regionale di Sviluppo 2020-2024, si ha l’impressione che non si abbiano idee in merito e che non sia una priorità.

Dunque, sono le forze vive della società sarda, del mondo della scuola, delle associazioni e delle istituzioni, a dover imporre la priorità, discutendo, mobilitandosi e mettendo in gioco le migliori idee e proposte progettuali. Serve una grande proposta di riforma, che si vada a condensare in un corpus di leggi che risponda alle caratteristiche demografiche e insediative dell’isola, che garantisca il diritto allo studio e la libertà di scelta del percorso formativo da parte degli studenti, assicurando in ogni ambito territoriale – che può contenere anche più di una Unione dei Comuni – la completezza degli indirizzi di studio e un piano di trasporti e servizi (mense, convitti) adeguati. Indirizzi di studio da plasmare anche in un’ottica di integrazione con le vocazioni produttive e ambientali territoriali.

Una riforma che restituisca centralità alla scuola de-centrandola, promuovendo patti educativi di comunità che aprano le scuole nell’arco della giornata ampliando l’offerta formativa e che portino al contempo le attività didattiche nelle comunità, nelle sue attività e nel territorio, inteso come vero e proprio “paesaggio dell’apprendimento” non formale. Le istituzioni locali, in questo quadro, avranno il compito di co-progettare e co-gestire con il Terzo Settore progetti tesi a supportare in ambito didattico e psico-sociale le studentesse e gli studenti più fragili e i rispettivi genitori, nonché a sostenere percorsi laboratoriali su competenze digitali, cittadinanza e partecipazione, educazione alla sessualità e all’affettività, radio, arte, teatro, cinema, mestieri e attività culturali presenti sul territorio.

Al tempo stesso, serve immaginare un ampliamento dei curricula degli studenti, prevedendo la lingua sarda in un complessivo rafforzamento dell’apprendimento delle discipline linguistiche, il potenziamento delle discipline STEM e delle competenze digitali. Ma soprattutto, integrando l’insegnamento della storia, della cultura e arti sarde, essenziali se si vogliono gettare le basi per una nuova consapevolezza collettiva di sé stessi, per rinnovare il mondo del lavoro, valorizzare il patrimonio culturale e definire un modello democratico e sociale più giusto, partecipato, a dimensione dei bisogni e desideri della Sardegna.

Questa grande sfida risponde a una nuova idea di scuola sarda-globale, aperta alle differenze, al centro dei paesi e delle città e in grado di cambiarli. Una scuola per emancipare sé stessi e al tempo stesso la terra che si vive, senza più rassegnarsi a ciò che esiste o a fuggire oltremare per trovare una realizzazione.


* Danilo Lampis

Laureato in scienze filosofiche presso l’Università di Bologna con una tesi vincitrice nel 2019 del premio internazionale della Fondazione Gramsci dedicato ad Alberto Cardosi. Già coordinatore nazionale dell’Unione degli Studenti, ora è componente dell’amministrazione comunale di Ortueri ed è attivo in diverse associazioni sul territorio regionale. Tra lavoro, progetti e studi, pubblica per alcune riviste cartacee e online articoli sui temi del lavoro, delle politiche di sviluppo, dell’istruzione e del welfare.


Articolo realizzato per il progetto "FocuSardegna a più voci"

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