Di MATTEO PORRU
Nel 1892, c’è un bambino che ha un anno per ogni dito delle mani e le avvolge intorno a una zappa. Ha perso la mamma e il papà in una manciata di giorni, poco più del tempo che la vita gli ha concesso per diventare grande e servo pastore. Lo deve fare, da fratello maggiore, che Gaetano e Antonio sono troppo piccoli per lavorare così tanto.
Lui, invece, si chiama Francesco, è nato a Nuoro e fa a pugni con la vita da quando ha abbastanza forza da rispondere agli affondi, da quando le sue braccia si sono irrobustite zappando la terra, guidando le greggi dello zio, che gli dice sempre di andare via, ma via lontano, se vuole mangiarsi la vita.
A quattordici anni, Francesco Cucca ha già capito quanto può far male vivere e vuole evadere.
Lascia lo zio padrone e si fa sei anni da minatore e da garzone a Iglesias, nei quali trova pure le energie per studiare e leggere ed evadere così, aspettando che la vita gli dia l’occasione per farlo davvero e gliela dà a vent’anni. Cucca va in Tunisia, con gli occhi pieni di speranza e la valigia piena di riviste e di testi di D’Annunzio, Carducci, Pascoli e, soprattutto, di Satta, che di lì a qualche anno chiamerà Sebastiano.
Francesco, in Africa, è uno e trino: è rappresentante, procuratore e amministratore di un’azienda livornese, la Lumbroso, che importa legnami. Viaggio nel viaggio, scopre l’Africa e i suoi costumi, le sue tradizioni, i suoi popoli. Il Magreb lo coglie di sorpresa anche in amore: si sposa con una ragazza del posto, Gharmia, anche se quell’unione non sarà felicissima.
Di fatto, Cucca ha troppa vita addosso per non iniziare a scrivere. Ed è quello che fa: prosa e poesia, novelle e saggi.
“Muni rosa del Suf”, romanzo pubblicato postumo nel 1996, suona come un’autobiografia: Lakhdar, un ragazzo arrivato in Africa per lavoro, decide di dimenticare il passato e la vita occidentale ed entrare nell’universo mussulmano. È un inno al cosmopolitismo e alla libertà, con una cura maniacale nel racconto dei costumi magrebini, una “terra di vinti” (Manca, 2008) dove lui è vincitore. Cucca continua a divorare storie in Algeria, Marocco e Tunisia, ma il legame con Nuoro e la Sardegna non lo rompe mai. Di più: scrive per “Rivista Sarda”, “Il Nuraghe” e “Il convegno” e Sebastiano Satta gli dà l’incarico di trascrivere le liriche dei “Canti barbaricini”, uno dei capolavori dello scrittore. Cucca torna a Nuoro nel 1919, sarà l’ultima.
Ma la vita continua a fare a botte. Dopo diciannove anni africani, Cucca è al verde e deve tornare in Italia. Fa l’insegnante, il traduttore e l’interprete, con un bagaglio di esperienze difficilmente superabile. L’ultimo lavoro lo porta a Napoli, dove si ritrova dietro una scrivania dell’Ente Nazionale Assistenza Lavoratori. Muore nel 1947, per problemi di cuore, fra le braccia del nipote, a neanche settanta anni, lasciandogli un pensiero breve ma intenso: se bisogna saper vivere, bisogna anche saper morire.
Per augurarsi un buon viaggio, l’ultimo, il più grande di tutti.
*****
MATTEO PORRU (2001)
Ha pubblicato The mission, Quando sarai grande e Madre ombra.
Premio Campiello Giovani 2019. Fra i 25 under 25 più promettenti al mondo per D di Repubblica.
Tutti e quattro i mori per Maurizio Costanzo.
Articolo realizzato per il progetto "FocuSardegna a più voci"
Vuoi diventare una delle firme del progetto? Invia la tua proposta via mail a: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
© E' vietata ogni riproduzione senza il consenso della redazione e dell'autore
© Foto che ritrae Francesco Cucca - Distretto Culturale del Nuorese