Alla voce “Barbagia” le più accreditate enciclopedie dicono: regione della Sardegna centrale i cui confini hanno variato col tempo. Ma ancora oggi quei confini, soprattutto nella pubblicistica, sono soggetti a frequenti ampliamenti o riduzioni a seconda che si voglia esaltare l’identità culturale ed etnica dei Barbaricini, oppure la si voglia collocare in una significativa zona delinquente. In realtà, oggi, la Barbagia di Ollolai, quella di Belvì e quella di Seulo (trascurando le Barbagie d’Ogliastra, di Bitti e del Mandrolisai, di cui non vi è traccia nelle carte geografiche) non corrispondono più a circoscrizioni amministrative e, di conseguenza, la loro definizione territoriale diventa labile e finisce per adattarsi alle più diverse esigenze degli antropologi, degli scrittori, dei politici, dei giornalisti e delle correnti turistiche.
Nell’usare il termine Barbaria (da cui Barbagia deriva), i Romani non miravano a fare geografia descrittiva. Barbaria era il luogo dei barbari, degli estranei cioè, dei Pelliti resistenti alla dominazione, appartenenti soprattutto alle tribù degli Iliesi o Iolaesi, che avevano scelto come rifugio il massiccio del Gennargentu e le sue boscose propaggini. Attraversata da strade costruite per collegare stazioni militari, se fu in qualche modo controllata con azioni di guerra o di anti-guerriglia (Pomponio Matho utilizzò mute di cani per stanare i ribelli), o talvolta con patti, la Barbagia non fu mai pienamente dominata dai Romani. Gli uomini delle trenta civitates Barbariae di cui parla una iscrizione latina, d’altro canto, non mostravano una precipua vocazione a vivere pacificamente nella “riserva” degli insani montes. Di quando in quando scendevano a valle per occupare con le loro greggi i pascoli invernali delle basse colline e per condurre bardanas, scorrerie rapide dalle quali, mordi e fuggi, traevano il bottino necessario per sopravvivere nell’indipendenza dei loro piccoli villaggi di montagna. Piombavano a valle, i Pelliti, soprattutto nei periodi del raccolto, si appropriavano di tutto ciò che potevano e mettevano fuoco al resto.
Se sotto Augusto i Barbaricini sembravano in qualche modo propensi ad accettare la sovranità romana, sotto Tiberio Roma dovette inviare truppe fresche per arginare i loro colpi di mano e ancora, sotto Giustiniano, cinque secoli dopo, dovette stabilire un presidio militare di controllo a Forum Traiani (Fordongianus). L’invaso del Taloro ha ricoperto un ponte romano di solida fattura, a quattro arcate, che guadava il Gùsana, nella vallata omonima, tra Gavoi e Fonni; i resti di un altro ponte romano si ritrovavano un po’più a monte, a Gosogolèo, in territorio di Lodine. Non erano opere di viabilità ordinaria; erano costruzioni militari che consentivano il transito dei carriaggi anche nella stagione invernale, col fiume in piena.
La stessa penetrazione della Chiesa avvenne lentamente. Il Vescovo di Barbagia dovette risiedere per lungo tempo a Suelli, non perché la sua diocesi si spingesse fin lì, in terre di grano, come qualche storico sostiene dilatando oltremisura le capacità residenziali dei Barbaricini, ma perché non era possibile porre una sede vescovile in partibus infidelium. Gregorio Magno chiedeva ad Ospitone, dux Barbaricinorum, di convincere i suoi sudditi ad adorare il vero Dio, “che ignoravano”, e ad abbandonare il culto degli alberi e delle pietre (ligna et lapides). La richiesta, per quanto se ne sa, non sembra aver provocato conversioni di massa. E tuttavia, con il trascorrere dei secoli, una paziente e assidua opera di evangelizzazione doveva portare il Cristianesimo ad insediarsi saldamente in Barbagia costruendo le sue chiese campestri nei luoghi degli antichi santuari consorziali pagani e altre chiese e parrocchie nei villaggi. E molti furono gli eremiti, che ancora rivelanio i toponimi, S’Erimu, S’Erimu ‘e Sa Mela, S’Eremosa (Erimu significa eremo). Dietro la chiesa di Lodine affiorano i resti di un nuraghe.
Conquiste militari e penetrazione religiosa e culturale della Chiesa non sembrano, tuttavia, aver distrutto l’antico sostrato della regione. E’ significativo che nella lingua della Barbagia di Ollolai, la Barbagia per eccellenza, quella cui si riferiscono sempre le enciclopedie e le guide turistiche, non esista l’equivalente del termine italiano “Barbaricini” (Barbarizinos è un brutto italianismo di dubbia acquisizione e di provenienza retorica), mentre esiste nel sardo meridionale (Brabaxinus). I tardi discendenti delle trenta civitates della iscrizione romana (da intendersi come villaggi, non come città) quando parlano in italiano si autodefiniscono, appunto, Barbaricini, trovando in questo termine anche una sorta di gratificazione; quando parlano in sardo, invece, preferiscono impersonare la comunità di origine chiamandosi ollolaesos, mamujadinos, fonnesos, e così via, a seconda che siano di Ollolai, di Mamoiada o di Fonni.
E se vogliono in qualche modo accomunarsi, pure appartenendo a diversi paesi, usano talvolta il termine montagninos, che non si può tradurre con l’italiano “montanari” perché sempre contiene una implicazione etnica.
Viene da credere, dunque, che questa famosa Barbagia, a tanti secoli dalla nascita del suo nome, soffra ancora oggi di una definizione proveniente da culture esterne. E si può anche pensare che in questa regione continuino ad abitare i barbari, con tutto il fascino o la riprovazione che può loro attribuire la società contemporanea e con l’autocompiacimento che, di riflesso, può derivare ai Barbaricini dal sentirsi sempre considerati diversi, residenti e resistenti in una sorta di repubblica federale, o confederale, cioè prima di troppe e riconosciute autorità unificanti. […]
Photo credit Carlo Marras
https://www.facebook.com/carlomarrasphoto/?fref=ts