Quello inerente la meritocrazia è un tema alquanto dibattuto di questi tempi. Cavallo di battaglia dei politici, slogan disperato dei giovani disoccupati, rimedio invocato e auspicato da opinionisti e sociologi, la meritocrazia è spesso indicata come unica soluzione ai tutti i mali nazionali.
Ma cosa occorre fare affinché qualcosa cambi in Italia?
Non vi è dubbio che l’istituzione di un sistema di valori imperniato sul riconoscimento del merito e volto a valorizzare le eccellenze, indipendentemente dalla provenienza, sia l’unica strada per noi percorribile ma il discorso è molto più articolato di quanto potrebbe apparire in un primo momento.
Sussistono elementi storici e sociali che dimostrano quanto noi italiani siamo culturalmente poco propensi all’istituzione di un sistema di questo tipo. E ne dà prova il fatto che è tuttora complicato sradicare la mentalità per cui si è lasciato per troppo tempo intendere che lo Stato, o le pubbliche amministrazioni in genere, dovessero farsi carico dei problemi personali di coloro i quali non facevano alcunché per occuparsene.
È stato proprio questo meccanismo che, alimentato dal clientelismo elettorale e dal dipendentismo sociale, ha innescato una spirale regressiva per cui molti individui hanno scaricato i loro problemi sulla società in un concorso di colpe che ha reso l’apparato pubblico inefficiente. A tal proposito, non vi è dubbio che le raccomandazioni e il nepotismo abbiano costituito per Italia una piaga, più che per molti altri paesi industrializzati.
Ma siamo sicuri che le raccomandazioni costituiscano il vero problema?
Negli USA, patria della meritocrazia, le “recommendations” portano a riempire un posto di lavoro su due. Si tratta però di “raccomandazioni” molto diverse dalle nostre. Chi segnala qualcuno particolarmente bravo e adatto per un posto di lavoro lo fa con grande cautela, perché mette in gioco la propria stessa reputazione e risponderà moralmente della performance della persona segnalata.
In Italia, invece, si raccomandano con leggerezza persone che non si conoscono dal punto di vista delle capacità professionali per posti di lavoro altrettanto sconosciuti. Da noi contano le frequentazioni, le parentele, le protezioni. Da noi la posizione sociale di origine e le aderenze politiche influiscono più della competenza e del talento.
Quest’insieme di relazioni sociali che in Italia conta più delle capacità individuali è stato definito da uno studioso anglosassone come “familismo amorale”, che altro non è che una forma di nepotismo per la quale, in assenza di fiducia nei confronti dello Stato, ci si costruisce una rete di protezione individuale fatta di conoscenze e rapporti personali che di fatto osteggia il fluido accesso dei più meritevoli ai posti chiave della società.
Stando cosi le cose, la domanda che tutti noi dovremmo porci è questa:
Siamo veramente disposti a rinunciare a questa rete di protezione individuale in nome della meritocrazia? Oppure la meritocrazia continuerà a rimanere uno slogan da campagna elettore?
*FocuSardegna