“E se vuoi un Carnevale che non ce n’è un altro su tutta la terra vattene a Mamoiada che lo inaugura il giorno di Sant’Antonio. “ Così scriveva Salvatore Cambosu in un passaggio di uno dei suoi libri più celebri, ma, col consenso dell’illustre scrittore, credo che questa affermazione si possa estendere a tutta l’isola e, dunque, “Se vuoi un Carnevale che non ce n’è un altro su tutta la terra vattene in Sardegna che lo inaugura il giorno di Sant’Antonio”. Si, perché potresti sorprenderti di trovare ancora tanti luoghi che hanno reso la tradizione uno stile di vita, che tentano in tutti i modi di portare avanti usanze che, con caratteristiche diverse e con qualche sintomo di cambiamento, hanno il potere di farti viaggiare nel tempo.
Il Carrasegare è indubbiamente uno di questi, per una serie di ragioni che elecandole non avrebbero mai fine, ma soprattutto è la sua particolarità a renderlo diverso. Il Carnevale dalla natura bipolare, triste e allegro, e che sembrerebbe ricollegarsi chiaramente ad antichi riti Dionisiaci. Il carre’e secare che, come suggerisce il nome, in tempi remoti poteva indicare l’atto di lacerare carne viva, forse per rendere omaggio al Dio bambino Dioniso sbranato dai Titani. Un’immagine cruenta parrebbe ma che simboleggia la rinascita, quel Dio che da adulto muore una volta all’anno e torna a nuova vita, seguendo il risveglio stesso della natura nel suo passaggio ciclico delle stagioni. Di tempo ne è trascorso da allora e ritrovare l’antica simbologia oggi, perlomeno quella che portava i nostri antenati a praticare determinati riti, è pressoché difficile, ma la magia della Sardegna, in fondo, è forse questa, quella di aver preservato nonostante l’incedere del tempo, un retrogusto archetipico e autentico in tutto ciò che le riguarda. Così quest’anno, nella mia sferzante ricerca di vera Sardegna, è capitato fossi a Gavoi per il Carrasegare e, in questo centro della Barbagia, ho avuto modo di imprimere istantanee di memoria trovando i simboli di una tradizione e, al contempo, un’energia che mi ha trasportato oltreoceano.
Il Carnevale gavoese è vissuto ancora prima di iniziare, mesi antecedenti di preparazione, di ricerca del materiale da indossare, de sos tumbarinos, gelosamente conservati, a cui vien tolta la polvere per riprendere in seguito a suonare. E’ stato proprio su tumbarinu a eccellere fra tutti: dietro di esso vi è un culto, una storia da raccontare che si traduce in suono e che ti porta a immaginare cosa ci sia a monte, la provenienza del materiale, la lavorazione e la passione di coloro che lo hanno realizzato. Dal legno, alle pelli coi quali vengono costruiti, all’abile mano del fabbricante, e quel nome proprio che li rende personali e caratteristici, tutto contribuisce a trasformare sos tumbarinos in pezzi unici che vibrano attraverso l’anima dei loro componenti essenziali. Su tumbarinu è il direttore d’orchestra che guida il ritmo del ballo sardo gavoese, ma non avrebbe ragione d’essere senza l’ accompagnamento de su triangulu (il triangolo), de su pipiolu (il piffero) e de su tumborro, quest’ultimo singolare nel suo genere per l’essere composto da una corda e da una vescica di maiale come cassa di risonanza.
Inevitabilmente, osservare quegli strumenti, riporta alla mente primordi di altre culture e nell’aria si percepisce il cuore pulsante della terra africana con su tumbarinu, la melodia celtica con su pipiolu, ma è su tumborro in particolare a colpirmi poiché simile, sia nella forma che nel principio del suono, al berimbau, strumento tribale brasiliano di derivazione africana.
Preziosi tesori musicali che rubano la scena alle maschere: è il Carnevale del suono, della musica senza regole precise, con l’unica regola dell’istinto e dell’improvvisazione che ti induce a buttarti sulla strada e trasgredire, ricollegandoti attraverso quei ritmi perpetui e ipnotici in epoche nelle quali vi era un morto vero del Carrasegare, una vittima sacrificale che veniva accompagnata dai sonadores e, in quella terra di mezzo tra la morte e la vita, in grado di rimuovere il vecchio e creare il nuovo.
La bellezza del primo giorno di Carnevale gavoese, la Jovia Lardajola, è racchiusa tutta in quegli oggetti e nello spirito stesso degli abitanti, che vestiti e tinti di nero, ancora oggi, permettono a essi di rivivere, protrarre il loro boato nelle vie del paese e accogliere vicini, amici o anche passeggeri occasionali che hanno il desiderio di gettarsi nella folla e, per un giorno, essere protagonisti.
E non finisce qui, perché su tumbarinu comparirà anche nei giorni successivi dettando il battito de sos muttos improvvisati, nel mezzo dei carri allegorici e delle serate danzanti. La tradizione, dunque, che si fonde con la modernità e, senza note stonate, si rivela negli occhi delle persone, nelle quali è evidente un’energia che, a oggi, forse ho avuto modo di percepire solo nello spirito carnevalesco dei brasiliani.
Io, che ritorno a Ichnusa con una bussola carioca, dico allora onore al merito ai gavoesi, che nell’era della frenesìa, della modernità, del lavoro come unica ragione di vita, arrivano a ipnotizzare il paese per qualche giorno ed è una festa continua, incessante, dal giovedì fino al martedì. Ed è proprio durante il martedì grasso che la mia curiosità si rimette in moto. In una piazza Sant’Antioco, poco affollata ma parecchio calata nella parte, un gruppetto di improbabili e simpatici attori inscena quel che rimane, probabilmente, de su mortu ‘e Carrasecare: dopo una breve colluttazione, grida efferate miste a risate sarcastiche, Zizzarrone e Maria Rosa pagano le pene della società e vengono gettati al rogo, decretando esattamente uno dei momenti più esoterici della festa, la morte, le ceneri che andranno a formarsi e l’invito al Dio a ridestarsi dopo il lungo inverno.
In quel preciso istante ho avuto chiaro il messaggio che andavo cercando da giorni: antico e moderno, tradizione e innovazione hanno forgiato un’armonia. E’ esattamente la complicità di queste due componenti essenziali a rendere il Carnevale gavoese, e forse Gavoi tutto, vincente e vivo.
Harrasehare si c’andat
e istentada a che torrare
baranta dìes cumandat
a chie cheret diunare
Foto credit Enrico Lai