E chissà cosa direbbero di noi i nostri antenati nuragici, osservando quanta poca considerazione abbiamo della loro grande civiltà e del patrimonio culturale che ci hanno inconsapevolmente regalato.
Certamente penserebbero che siamo pazzi, che viviamo completamente sconnessi dalla spiritualità, fondamento della loro vita e del loro modo di essere, inseguendo Dea Ignoranza e Dio Denaro.
Abbiamo perso il contatto con la terra, con l'acqua, col sole e con la luna; abbiamo perso il contatto con l'aldilà e coi nostri avi defunti; abbiamo perso la capacità di essere in contatto con noi stessi e gli altri popoli coi quali essi scambiavano saperi e tesori.
Probabilmente ci direbbero che è arrivato il tempo di ridestarsi dal pesante sonno lungo quanto migliaia di ere. È tempo di assemblare forze e energie per riportare alla luce le loro fortezze, le loro case, i luoghi sacri e tombali, che hanno sapientemente costruito. È tempo di decifrare il loro linguaggio e i loro simboli. È tempo di far conoscere al mondo la loro grandezza e il loro splendore.
Così immersa nelle campagne intorno a Borore, ai piedi del Marghine, i pensieri prendevano forma. Una zona con un’alta concentrazione di nuraghi, di tombe, di dolmen e domus de janas mi si presentava davanti quasi a dirmi: “Eccoci, vieni a farci visita, prenditi un attimo. Fermati a riflettere sul significato che abbiamo avuto e perché siamo qui, proprio in questo punto”.
E’ una condizione che si ripete continuamente. Tutte le volte che mi ritrovo in un sito archeologico inizia un viaggio introspettivo e, dentro di me, sorgono numerose domande, molte delle quali senza risposta, ancora avvolte dal mistero. Le poche che gli esperti sono riusciti a dare sono oltretutto cariche di contraddizioni. Un mondo strano quello dell’archeologia: porti avanti una teoria per tanti anni, poi ne arriva un’altra e fa cadere ogni convinzione avuta fino a quel momento.
Nel caso della Sardegna questa è la norma, se pensiamo che l’interesse verso la nostra storia antica è nato solamente circa cento anni fa. Giovanni Lilliu e altri studiosi arrivati dal Continente furono i primi, quando gli abitanti avevano ben altro a cui pensare e lo fecero per altri anni ancora: le due grandi guerre, la preoccupazione di come poter sfamare la famiglia, la miseria, la malaria.
Il sardo comune non aveva tempo di pensare al suo passato, viveva il presente e faceva il possibile per costruire basi solide per il futuro. Concreto e radicato sulla terra, come era giusto che fosse.
Oggi i tempi sono cambiati, abbiamo certamente altri problemi da risolvere ma le persone sono più curiose, informate sotto certi aspetti, più “studiate”come avrebbe detto mia nonna.
Nonostante questo vi è però, tuttora, una scarsa consapevolezza diffusa sull’importanza del nostro passato, quello lontano, lo stesso che ha lasciato tracce ben delineate e che ancora subisce un rifiuto. Lo si osserva chiaramente, quando ti ritrovi davanti a un nuraghe con gli ingressi sbarrati dal proprietario del terreno, come a dire: “Qui non si entra, è roba mia”; oppure domus de janas avvolte dalle sterpaglie, o menhir infranti in pezzi destinati all’arredamento casalingo. O peggio, quando non vengono segnalati o, se lo sono, si fa in modo di eliminare ogni indicazione.
E voi la chiamereste evoluzione culturale? Manca il rispetto, manca la consapevolezza, manca il contatto col divino, che potrebbe solo voler dire provare la meraviglia e l’adorazione verso tutto quello che a ogni alba si presenta davanti ai nostri occhi. Basterebbe solo abituarsi a porre delle domande, perché il solo fatto di porle induce alla riflessione, fomenta una curiosità contagiosa che col tempo, magari non nel nostro, probabilmente, spianerà la strada per raggiungere la conoscenza.
Foto credit Natascia Talloru
Tomba dei Giganti Imbertighe
Nuraghe Sorolo