Quest'anno si celebra il centenario della Grande Guerra. Nella storia della Sardegna il 1914 non fu tra gli anni più lieti. La siccità, dalla quale l'estate precedente si erano a stento salvati i raccolti, continuava impietosa. La lunga siccità non era la sola causa, né la più grave, della crisi che pesava sulla Sardegna. Già dal luglio, infatti, la guerra originata dall'attentato di Sarajevo si andava estendendo in tutta Europa e furono poco meno di 100 mila i sardi che fra il 1915 e il 1918 partirono per la guerra. Se ci si vuole affidare alla precisione dei dati ufficiali furono 98.124: uno ogni nove abitanti di quest'isola. Non esagerò Emilio Lussu quando scrisse che alla chiamata alle armi "si sottrassero solo i ciechi". Gli altri, quelli che bene o male erano in grado di vedere e di tenere in mano un fucile, andarono a combattere in terre sconosciute. Non tornarono tutti: 13.602 furono uccisi e altri 3.500 furono dichiarati dispersi. Ciò, in concreto, significava che gli insulti della guerra - i proiettili, le cannonate - avevano reso irriconoscibili tutti gli altri corpi.
Non è del tutto sicuro che la guerra che combattevano fosse la stessa della quale avevano parlato gli alti ufficiali, i giornali, gli oratori nelle piazze d'Italia. Il 5 maggio D'Annunzio, parlando dallo scoglio di Quarto aveva gridato agli italiani: "Tutto ciò che voi siete, tutto ciò che avete, datelo alla fiammeggiante Italia! Beati quelli che più anno perché più potranno dare". La Patria prima di tutto, anche prima della propria vita. Non si sa bene quanto questa retorica lussureggiante, potesse toccare tutti quelli che partivano da luoghi poveri per andare a combattere. I soldati sardi ebbero comunque il privilegio (si diceva) di combattere riuniti in gran numero in una sola formazione: la Brigata Sassari. Sulla Brigata, scrisse Lussu: "si può dire che durante il corso della guerra passassero tutti i sardi aventi obblighi di guerra. E poiché nell'isola fu fatta la leva in massa, alla quale si sottrassero soltanto i ciechi, vi passò tutta la Sardegna. Per disposizione del comando supremo, i sardi inquadrati in altri reparti venivano man mano trasferiti alla Brigata".
Tutti eroi, dunque? Probabilmente si. Nella sua "Storia della Brigata Sassari" Giuseppina Fois raccolse la testimonianza di alcuni reduci. Settimio Cauli, contadino di Orroli del 1899, diceva: "Mi chiede dell'assalto? Era una cosa che si doveva fare per mestiere. Lamentarsi? Si trattava di ubbidire alla Patria. Nient'altro. Se avevo paura? Io avevo una paura matta, sentivo cannonate e mi faceva un effetto come mi fa ancora adesso quando si sente l'aria tuonare".
In questa obbedienza - in qualche modo rassegnata - vi era forse il segno di un individuale orgoglio, di quel desiderio di fare bella figura del quale aveva parlato Attilio Deffenu. Ma vi era anche qualcosa di più, un desiderio di rivincita sulle mortificazioni sofferte.
Vittorio Emanuele Orlando (presidente del consiglio) nel 1918, quando finì la guerra, disse: "L'Italia ha contratto un grande debito di gratitudine nei confronti della nostra isola".
In realtà, col senno di poi, abbiamo scoperto che ci sono debiti che non verranno soddisfatti mai.
*Fonti:
"100 anni della nostra storia. Dai campi alla trincea" di Angelo De Murtas
"Un anno sull'Altipiano" di Emilio Lussu
"Storia della Brigata Sassari" di Giuseppina Fois
*FocuSardegna