- Aldo Aledda* -
Le persone in genere hanno due modi di reagire davanti agli eventi: subirli e compiangersi oppure dominarli e andare, comunque, avanti. La prima schiera è quella in cui è più facile collocare un gran numero di sardi. Abitanti di un’isola al centro di un mare tra i più ricchi di storia al mondo, soprattutto per ragioni di scarsa raggiungibilità ne sono stati sempre ai margini. Da questa condizione è nato e si è sviluppato, soprattutto nell’ultimo dopoguerra, un robusto filone culturale, un caratteristico pensiero politico, una ricorrente vocazione economica e un’antropologia improntata il più delle volte purtroppo a rassegnazione. La Sardegna intesa come colonia, come terra di conquista, area del mondo su cui hanno sempre deciso altri, ha contribuito a inculcare nei sardi il noto senso di estraneità e d’impotenza circa il loro futuro più di quanto non abbia fatto forse la collocazione geografica.
Tra poco saranno settant’anni che l’isola – da cui è partito il processo di unificazione dell’Italia (opportunità che forse poteva essere sfruttata un po’ meglio dagli stessi sardi) – si balocca con un’autonomia che, dopo aver dato risultati apprezzabili nel primo mezzo secolo, gradualmente mostra il volto grottesco con cui la classe dirigente dell’isola riesce a coglierne le opportunità. E allora, a un periodo in cui il popolo sardo si sentì arbitro del proprio destino, – più grazie ai consistenti finanziamenti provenienti dall’Italia e dall’Unione Europea che dalle non troppo floride tasche dei propri contribuenti –, ne è seguito un altro di lenta decrescita e di contrazione delle risorse. Eppure la Sardegna sembrava aver superato definitivamente l’isolamento geografico, e l’isola era diventata una delle mete più ambite dal turismo nazionale e internazionale e non sono mancati pure gli investitori italiani e stranieri. Anche le infrastrutture interne sono diventate finalmente all’altezza di un paese moderno e il benessere dei suoi cittadini si è accresciuto notevolmente.
Da qualche anno, però, l’edificio incomincia a mostrare delle crepe. I collegamenti con l’isola si fanno più difficili. La lievitazione delle tariffe dei traghetti e la messa in discussione della continuità territoriale, oltre che penalizzare il turismo, rende più difficile agli stessi sardi raggiungere il continente. Ricompare, quindi, il panico da isolamento. Perciò è realistico considerare che chi vive in Sardegna, salvo poche eccezioni, si trova per certi versi in una specie di cul de sac. E, allora, l’unica via d’uscita è dominare gli eventi tenendo conto delle difficoltà e sfruttando al massimo le possibilità e le risorse esistenti.
Poiché siamo in epoca di ferie e di vacanze, cade a pennello estendere queste riflessioni all’industria turistica: secondo alcuni questa rappresenta un po’ il nostro petrolio. Tuttavia l’atteggiamento degli operatori sardi del settore, davanti al crollo delle prenotazioni e degli arrivi, dovuta anche ai costi proibitivi dei trasporti di linea, è di estrema angoscia. E, mentre si attende che da qualche parte si compia un miracolo, ci si straccia le vesti e si levano lamenti al cielo. E tutti gli sguardi sono ancora rivolti alla Regione (soprattutto nella segreta speranza di cavarne un po’ di soldi).
Perché, invece di imprecare al destino cinico e baro, non si prova a ragionare sui dati di fatto a disposizione e a questi adeguare la propria attività? Può l’operatore turistico continuare a pensare che basti un tetto e una striscia di mare ad attirare il turista nell’isola? Il mese di riposo – che un tempo caratterizzava e giustificava un lungo e meritato periodo di vacanza – oggi ciascuno se lo fa a casa propria a costo zero, a causa dell’aumento dei costi dell’ospitalità e dei prezzi proibitivi del trasporto marittimo e aereo. Viceversa si cerca di fare viaggi brevi e intensi, sfruttando le offerte aeree più vantaggiose. Quindi, per primo si accetti e si lavori su questo dato di fatto, mettendo in soffitta tradizionali petizioni di principi o le sterili rivendicazioni di diritti (continuità territoriale, per es.) che erano possibili quando soldi ce ne erano in tale abbondanza da riuscire a darci questi vantaggi e buttarne anche via dalla finestra. Inoltre, davvero pensiamo che qualcuno riuscirà (con i pochi soldi disponibili per le infrastrutture in genere) a creare una rete di ferrovie grazie alla quale si potrà a girare la Sardegna come l’Olanda, la Svizzera o la Germania? Il discorso per il momento è chiuso, perciò si aiuti il turista a trovare l’auto a noleggio in aeroporto (come già fanno alcune compagnie aeree) o, sennò, siano gli albergatori a riceverlo all’arrivo e, per tutto il soggiorno, gli arrangino possibilmente gli spostamenti necessari per visitare i posti più suggestivi della Sardegna. Come secondo, si cerchi di lavorare con gli altri operatori (senza aspettare la mano pubblica, ma neanche prescindendo da questa) mettendo in campo offerte di ospitalità continue e convenienti. Se in Europa, per esempio, vi è un grande movimento di turismo sportivo di trekking, mountain bike, arrampicate, cavallo, moto cross, ecc., li vogliamo tracciare e, poi, mantenere, questi benedetti sentieri e le vogliamo fare bene queste benedette cartine o vogliamo continuare a essere la regione dove più di frequente si smarriscono gli escursionisti? Quindi, per non farla troppo lunga, ci sarebbe molto da lavorare intorno a questo campo, legando cultura, agroalimentare e anche religione.
Mi perdoni il lettore: non volevo fare un discorso sul turismo, ma solo di metodo.
Auguriamoci, quindi, che noi sardi si smetta di aspettare Godot, ma facciano i conti con la dura realtà dei nostri giorni e da lì si parta. Da qualche parte sicuramente si arriverà.
*Saggista