*DI MARCO SECHI
Da tanto tempo subiamo degli spettacoli di dubbio gusto, spesso elaborati col supporto dell’ambiente del folklore, sintomo di un popolo sardo che avrebbe sempre voluto e probabilmente ancora vorrebbe esserci, ma che non è mai riuscito a costituirsi, a rappresentarsi. Essi si configurano come il ripetersi di una malsana abitudine, manifestata spesso in esibizioni goffe, carnevalate, celebrazioni di feticci, per rivendicare un sedicente “orgoglio nazionale sardo”, senza alcun fondamento concreto.
Queste considerazioni non vogliono contrastare alcuna intenzione autonomista: piuttosto vorrebbero interrogare un non meglio definito “nazionalismo sardo” che, se propriamente si sarebbe dovuto definire già in epoca Romantica, oggi sembra fare l’effetto di un uomo che passeggia per le nostre strade col panciotto, il cilindro, il bastone, l’orologio da taschino e i basettoni, quasi fosse uscito da un romanzo ambientato nell’Ottocento. Vi stupireste nel vedere un tale personaggio in giro? Ebbene, lo stesso stupore dovrebbe generarsi quando, nell’epoca del predominio degli Stati continentali (per dimensione geografica, economia e influenza politica), si confonde l’autonomia con il nazionalismo, paventando il sollevamento di barricate sul mare e guardando con sospetto ogni comunicazione con l’esterno.
Probabilmente ci si dimentica che la Sardegna, da quando se ne ha notizia storica, ha visto calpestare le sue terre, nell’ordine, da nuragici (siamo sicuri che siano sempre stati in Sardegna, o che non fossero anch’essi degli “invasori”?), fenici, punici, romani, vandali, bizantini, musulmani, senza tralasciare le esperienze dei Giudicati e delle Repubbliche Marinare, aragonesi, spagnoli, anche Asburgo d’Austria per una breve parentesi, giusto il tempo da utilizzarci infine come contropartita di scambio in favore dei savoiardi, che sardi si definirono mantenendo il titolo regio da poco ottenuto, tuttavia eliminando progressivamente qualunque residuo o parvenza di autonomia governativa degli indigeni. L’indizio storico è dunque che la Sardegna sia sempre stata terra di approdo per la sua posizione strategica al centro del Mediterraneo e appetibile per qualunque popolazione, poiché ricca di risorse naturali e con un ambiente estremamente favorevole allo sviluppo antropico.
Popolo sardo sì, ma con adeguata coscienza storica, e senza anacronismi.
È doveroso fare almeno un tentativo per definire i caratteri dell’identità culturale sarda, non solo per il presupposto autonomista, ma anche per il vantaggio che si può trarre da questo studio. Ammettiamo la proporzione per cui un individuo più è cosciente della sua identità, tanto più risulterà capace di instaurare relazioni solide e di qualità. Allo stesso modo, posto che sia consentito il parallelismo, anche un popolo ben cosciente della sua storia sarà più capace di stabilire robusti legami di fiducia con i suoi corrispettivi, perseguendo non solo i propri interessi, ma anche quelli della comunità dei popoli in cui abita.
Può essere utile a tal fine chiedere aiuto ad un sardo che proprio di stirpe sarda purissima non era: Antonio Gramsci, il cui padre si ritiene fosse di origini albanesi, scrisse delle bellissime considerazioni sul folklore e il legame che questo aveva con la cultura popolare, proprio durante il carcere che gli fu inflitto da coloro che sostenevano la purezza della razza. Perché, se oggi un adolescente di Cagliari non si distingue molto da un adolescente di New York, le differenze erano enormi almeno fino alla seconda metà del Novecento, quando la cultura popolare indigena è andata gradualmente a scomparire con l’avvento della globalizzazione.
Per folklore infatti Gramsci intendeva la “concezione del mondo e della vita”, implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo ufficiali (o in senso più largo delle parti colte della società storicamente determinate) che si sono successe nello sviluppo” (Quaderno dal Carcere n. 27). Insomma il folklore non è altro che le abitudini, i modi e i costumi di un gruppo sociale popolare, che non rappresenta le istituzioni e non possiede un sapere derivato da un’istruzione organizzata e determinata.
Da questo si deduce che il folklore non è dunque il costume sardo di nonna che indossiamo alle sfilate, o nei vari porti dell’isola per tentare di allietare i turisti senza alcun risultato. La riproposizione di tutte le manifestazioni culturali che un tempo scandivano il ritmo della vita dei nostri antenati è, nel migliore dei casi, un tentativo di recuperare la memoria storica di ciò che eravamo; nel peggiore dei casi si risolve in una carnevalata volgare che stravolge totalmente il significato di riti, costumi, usanze, nel nome delle esigenze del mercato.
Il prodotto in vendita è una presunta immagine mitologica della Sardegna, che essendo mitologica dovrebbe almeno avere una certa solennità, ma che, al contrario, perde qualunque senso del sacro, decontestualizzata e asservita com’è al mercimonio. Il termine stesso “mitologia” diventa quindi improprio, applicato a tale contesto. Non vi è nessun intreccio narrativo, è assente qualunque logica e struttura razionale dietro le immagini che ci vengono propinate dalla comunicazione pubblicitaria legata alla tradizione, tutto assume invece tutti i connotati involontari del comico e del grottesco. Perché oggi vince chi la spara più grossa, chi è più stravagante e attira l’attenzione, e non vi sono limiti ai mezzi per raggiungere questo obiettivo.
Tenendo fede alla concezione gramsciana di folklore, sembra quasi che nel mondo della globalizzazione non vi sia più spazio per il rigore della ricostruzione storica, e ci si debba arrendere ai vestiti dei nostri antenati indossati con le Sneackers o con il “tacco dodici”, sgargianti revisioni dei costumi tradizionali che hanno ispirato l’ironia una celebre pagina satirica dei social network. Ci sono esempi di abiti appariscenti che vengono spacciati come tradizionali, ma che trovano pochi riscontri nelle documentazioni risalenti a periodi storici precedenti. I riti religiosi, la celebrazione delle feste come eventi periodici per scandire il tempo delle attività umane, legate al lavoro della terra e all’allevamento degli animali, oggi perdono di significato in un contesto materiale e quindi spirituale totalmente mutato.
Allora come recuperare l’autenticità della tradizione in un mondo globalizzato?
Sempre ritornando all’analogia tra individuo e società, se alla base dell’identità di una persona vi è la sua capacità di poter raccontare la sua storia in maniera razionale e sistematica, senza ignorare giudizi scomodi su di sé ed esagerare con le celebrazioni del suo ego, la stessa cosa potrebbe essere utile all’identità di un popolo. Il cosiddetto “mondo del folklore” perciò farebbe bene a concentrarsi sulla ricerca della puntualità scientifica nella ricostruzione delle tradizioni, dando peso al valore delle testimonianze e senza invenzioni di sorta, generalmente perpetrate a scopo commerciale.
E non ci si illuda di poter ripetere la vita dei nostri nonni solo indossando il loro abito tradizionale, o celebrando le loro festività: la società di oggi ha altri riti, altre manifestazioni culturali proprie, che ormai derivano da un’economia e da relazioni tra persone profondamente diverse rispetto a quelle dei secoli passati.
Lo studio delle tradizioni, così come quello dei costumi e della storia materiale, è alla base della costituzione di un modello per un’identità culturale inclusiva che si può applicare a qualunque popolo, qualunque gruppo sociale, qualunque individuo che si voglia riconoscere nella stessa narrazione, rinforzando il senso di comunità.
*Marco Sechi
Membro del direttivo dell’Associazione Culturale e Folklorica “A sa Crabarissa”. Specializzato in Filosofia Teoretica all’Università di Cagliari, sul tema della conoscenza storica. Con l’Associazione, porto avanti un lavoro di ricerca sulle tradizioni culturali del nostro paese d’origine.
Articolo realizzato per il progetto "FocuSardegna a più voci"
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