Sono da poco rientrato da due settimane trascorse in giro per la Sardegna. Non ho scritto nulla sui miei spazi social durante i miei giorni nell’isola. Ho lasciato parlare le molte immagini fotografiche, abbagliato da ciò che vedevo, sentivo, odoravo, gustavo e toccavo. Perché l'isola mi è esplosa intorno, e inevitabilmente mi è esplosa anche dentro. Ma poi il risultato di queste deflagrazioni necessita di tempo per posarsi e decantare e ci vorrà ancora ulteriore tempo per coglierne appieno l'essenza e la persistenza.
Sono vicentino e non era la mia prima volta in Sardegna, ma in questa occasione si concentrava comunque, in dodici giorni, una serie di “prime volte”, di primi incontri con differenti realtà isolane. A guidarmi la mia compagna di Tula. Molto più di una guida, molto più di un cicerone. Una finestra su un modo di essere. Non potevo desiderare di più. Ovunque o quasi sull'isola la terra, l'aria e l'acqua si allacciano e si slacciano in un quadro che dà l'impressione di essere sempre qualcosa di più che tridimensionale. C'è un respiro in ogni sguardo dato all'orizzonte che e difficile descrivere, non è solo luce, movimento, vento, ombre, immobilità. C'è un po' di tutto questo ma non solo questo. È qualcosa di molto più grande dell'uomo ma a cui l'uomo sente subito di poter appartenere. E chi vive sull'isola conosce profondamente questo senso di appartenenza completa che io sono riuscito appena ad intravedere ed intuire. È un senso di appartenenza includente, mai escludente.
Non ti senti estraneo nella terra dei sardi, sei accolto e introdotto in casa con calore e sincera benevolenza. Non quell'accoglienza che esagera in sorrisi e birignao sin dal primo momento, ma un'accoglienza che richiede il tempo, per il tuo ospite, di prendere le misure e di capire cosa cerchi, tu visitatore, dal tuo soggiorno sull'isola. Perché i sardi ne hanno viste tante nei secoli di invasioni aggressive o pacifiche che hanno preso tanto e lasciato poco e, giustamente, pretendono rispetto e parità nello scambio con chi fanno entrare in casa. Ma ci mettono poco a capire con chi hanno a che fare e se arrivi da loro con il desiderio di conoscere il tanto che la loro terra ha da offrire, andando oltre la consueta formula, spiaggia, mare, buona cucina, night life, sono pronti a darti il loro cuore, che è grande e caldo, e la loro conoscenza della storia e della società isolana che è molto più approfondita, in media, di quanto avvenga in altri luoghi d’Italia.
Non pretendo, naturalmente, di poter fare di ogni erba un fascio, soprattutto considerata la mia esperienza tutto sommato breve, ma questa è stata la netta impressione che ho colto e credo sia difficile da smentire. I miei sensi hanno raccolto molto in queste due settimane e già so che nei giorni a venire dell’autunno e dell’inverno mi si depositeranno lentamente dentro, nel cassetto delle emozioni più pure: la steppa bionda del Logudoro e del Meilogu, lo specchio azzurro del Coghinas, il granito multiforme della Gallura, la potenza calcarea del Supramonte, l'orgoglio barbaricino, le frustate delle onde sulle coste dell'Anglona, la schiena granitica di Tavolara di fronte alla serenità assoluta di Porto Istana, i costumi preziosi e variopinti di ogni comunità dell'isola riunitasi per la festa del Redentore a Nuoro, il mistero affascinante delle costruzioni e dei riti nuragici ovunque sparsi sull’isola, le acque limpide di Su Gologone, la pace immensa delle chiese romaniche di campagna, i treni degli anni cinquanta/sessanta a Tempio, le maschere oscure dei Mamuthones, dei Boes, dei Merdules, la politica e la società di ieri e di oggi dipinte sui muri di Orgosolo, i fondali marini più belli d'Italia (e forse del mondo) a La Maddalena, il suono perenne del vento sul monte Limbara, quello delle launeddas che fanno danzare ragazze e ragazzi, quello del canto a tenore, lo sguardo infinito su Cala Gonone, sulla Barbagia dal Monte Ortobene e sulla Corsica da Capo Testa, il cibo di mare e di terra bello all'occhio e generoso al palato, lo sguardo profondo di molte delle persone che ho conosciuto, le porte di San Pantaleo, i muri di pietra di Gavoi, l’andamento trotterellante delle greggi, il manto lucido dei cavalli, la luce vibrante e languida di Ichnusa.
Di Ettore Craca