365 giorni..questi i lunghi giorni che mi separano da LEI, da viaggio a viaggio. Ogni anno l’estate dovrà scorrere in fretta per accogliere, al più presto, SETTEMBRE…quel mese che per me, ormai, significa SARDEGNA! Il lungo viaggio in traghetto è il mio dormiveglia, un momento di sospensione finchè, alle prime luci dell’alba o allo spuntare della luna, riesco a scorgere- nonostante la miopia- la sagoma di Tavolara che, imponente, sembra aspettarmi con impazienza e salutarmi…in quell’attimo mi si gonfia il cuore e mi abbandono al mio SOGNO. Sogno che da qualche anno è diventato nostro, perché la meraviglia è ancora più bella in due. Non so spiegarmi la natura o l’intensità di questo legame con l’isola anche se, velatamente ed in sordina, ha sempre fatto parte della mia vita.
"La Sardegna trovava spazio nei racconti di mio nonno, Gavino Sanna per antonomasia, che parlava spesso di questa terra lontana dalla quale, per motivi di lavoro, si era dovuto separare troppo presto e alla quale desiderava tornare…un giorno! Una terra bellissima ed affascinante, quasi magica; una terra difficile, spesso arida; una terra…mal d’amore!
Nei suoi occhi la passione, la nostalgia, la speranza...
Il primo viaggio non si fece attendere e così, anno dopo anno e sempre nel mese di settembre, mi ritrovavo a solcare il mare per raggiungerla, ancora inconsapevole, ancora ingenua ma, sicuramente, tanto felice.
I miei ricordi parlano di gente con nomi strani: Mimmìa, Cecita che io vedevo così diversi da noi, nella fisionomia e negli atteggiamenti, con quel dialetto vivace e ricco di intonazioni e sfumature, di cui non capivo nemmeno una parola, ma che mi incuriosiva a tal punto da lasciarmi spesso attonita ed estasiata nei lunghi discorsi che allietavano la tavola, quella dei malloreddus al pomodoro fresco, che sapeva del caldo sole della campagna..o del sanguinaccio in quella pentola che bolliva e ribolliva per ore.. o della lasagna di pane carasau ai funghi e del profumo di maialino appena cotto…o di quella formetta dai vermetti saltellanti che zio Giovannino tirava inaspettatamente fuori e che diventava subito il pezzo forte della serata: il casu marzu.
Erano questi gli anni dell’infanzia, della prima adolescenza. Gli anni di Alghero e del suo fascino, dei suoi viottoli acciottolati e dei suoi negozietti ammalianti, della torre e dei cannoni, dei bicchierini di vermentino in una vecchia osteria del centro, del pesce al porto…
Gli anni di Thiesi, della mia famiglia completa, allargata dagli emozionanti e tanto attesi ritorni e dai nuovi arrivi, della zia con il suo inseparabile vestito nero, delle giornate passate in campagna, tra uva da mangiare e fichi da assaporare, maialini e pecore da rincorrere. Gli anni della mia infatuazione per la Sardegna….raffreddata presto dall’inesorabile ingresso nel vortice dell’adolescenza.
Quei viaggi in “famiglia allargata” cominciavano ad annoiarmi, preferendo la compagnia degli amici in spiagge sovraffollate e discoteche stroboscopiche.
L’isola continuava a rivelarsi parzialmente attraverso i racconti e le foto dei miei familiari o le telefonate “verso il continente”.
Tanti i viaggi, in preda a quell’euforia incontenibile e indomabile di scoprire il mondo…rara, però, quell’emozione pura, una lacrima di gioia o un respiro strozzato.
Finchè, non ricordo esattamente quando e come quella sagoma, ormai vista solo in cartina, si è ripresentata con prepotenza nella mia mente e, soprattutto, nei miei desideri. Forse per via di una fotografia o di un’immagine in tv; forse, e più semplicemente, quando quell’amore sopito ha finalmente trovato la via d’uscita e con essa il momento fertile per risvegliarsi e reimpadronirsi del mio cuore.
Da allora il countdown accompagna silenziosamente le mie giornate.
La Sardegna l’abbiamo girata in lungo e in largo…ma non ancora abbastanza.
E non contano i chilometri fatti (tanti!!), perché quando sei lì c’è una smania che ti pervade, una bramosia di conoscere e vedere che si impossessa letteralmente di te.
E allora si consumano i pneumatici, l’automobile mangia terra e sabbia, diventando un irriconoscibile oggetto mobile!
Ma ne vale davvero la pena.. quando ti imbatti in quei paesini semiabitati, traboccanti di passato e di fatica, in quelle montagne scolpite dal vento, in quei tramonti con quel sole così rosso e così grande, che saluta un’altra giornata “vissuta”; in quelle calette sperdute e semideserte, le più incantevoli, che per raggiungerle bisogna guidare a picco sul mare, imbattersi in tornanti inverosimili o evitare, come in una gimkana, le buche sulle carrarecce e sulle strade sterrate.
Non importa camminare metri e metri a piedi, sotto il sole cocente, quando sei circondato da macchie di lentisco, corbezzolo e qualche giglio di mare qua e là o inebriato dal profumo delle pinete ma soprattutto quando, dopo un po’ di fatica, davanti ai tuoi occhi si apre l’inaspettato, quello scenario che sembra un quadro d’autore, che a stento ci credi e che ti fa rimanere attonito, quasi inebetito.
I nostri viaggi hanno il sapore della semplicità….alloggi essenziali e sovente circondati dalla campagna dove al mattino si è svegliati dal canto del gallo o dallo scampanellio delle pecore e dove la sera, sotto un porticato, si beve un bicchiere di buon vino, un mirto in compagnia di tanti gechi a caccia di insetti!
Il gusto di quella campagna lo riconosci subito nella frutta e verdura delle baracchette di contadini disseminate sulle strade, così pittoresche nell’allestimento, così rustiche e sempre con i 4 Mori che sventolano al vento di maestrale.
Spesso l’odore di formaggio raggiunge la spiaggia ed allora diventa irrinunciabile la sosta dall’omino nel parcheggio, che comincia facendoti assaggiare un pecorino per finire con la salsiccia al mirto. E non puoi non farti una chiacchierata, scoprendo qualcosa in più di quest’omino dalla macchina carica di odori e sapori, che mescola disordinatamente l’italiano al sardo, risultando così buffo, così semplice…così umano e gioviale, così SARDO.
Quest’anno, la zona del Sulcis-Iglesiente, “ultima terra da scoprire”, ci ha messo davanti agli occhi una nuova e diversa faccia della Sardegna, forse quella più vera, più autentica e selvaggia.
Quella dell’aridità e del lavoro nelle miniere, quelle miniere che campeggiano su spiagge incastonate nella roccia nera o rossa, Masua- Pan di Zucchero, Laveria, l’incantevole Cala Domestica.
Difficile descrivere con parole le sensazioni che si provano quando si arriva in certi posti: nemmeno una foto d’autore riuscirebbe nell’intento.
Indubbiamente risulta impossibile non pensare a quanta fatica abbiano visto quei luoghi, prima di diventare meta turistica. Solo un occhio sensibile, però, riesce a scovare, osservando un reperto o un dettaglio che trasuda di storia, quella porta che apre un cammino verso un “altrove”, “l’oltre” dove reale ed immaginario magicamente si fondono, rendendo l’ambiente incantato e quasi sospeso nel tempo.
In queste zone ci è capitato spesso di imbatterci in greggi di pecore o capre, ma non avrei mai pensato di incontrarle disinvolte a Cala Zafferano.
Ecco, se dovessi pensare alla “Sardegna” e dovessi definirla o riassumerla, penserei proprio a Cala Zafferano, un luogo magico dove terra e mare si fondono perfettamente, sancendo la loro unione con il sottile filo rosso che caratterizza il bagnasciuga: lo “zafferano”. E aggiungerei, come sottofondo, quel canto ancestrale ed identitario capace, con semplici vocali magistralmente mescolate e strofe magicamente reiterate, di anestetizzarti e portarti indietro nel tempo, all’arcaico rapporto uomo-natura. Questo è quanto ci hanno regalato i Tenores di Bitti, incontrati nella splendida cornice della chiesa di S. Maria a Palmas Vecchio, quando abbiamo avuto la sensazione di partecipare ad un rito sentendo, sulla pelle che si accapponava ad ogni sillaba, l’allegria, la festosità, ma anche la malinconia, il dolore e la tristezza….la SARDEGNA.
Ogni viaggio, anno dopo anno, è sempre nuovo e diverso e, quando si ritorna, non si è mai uguali a prima.
Nascono nuovi frammenti di noi stessi, si ricompongono quelli disuniti e ci si sente arricchiti per le esperienze vissute, le emozioni provate, le persone incontrate, i silenzi assaporati, dove a parlare è SOLO la natura.
Queste parole sono solo ciò che vien fuori da ogni ritorno; non hanno nessuna presunzione se non quella di essere la testimonianza di un viaggio, limitato nel tempo e forse ancora superficiale…. perchè la Sardegna è tanto altro.
Si dice che ogni viaggio si vive tre volte: quando si sogna, quando si vive e quando si racconta…ed io racconto, così, di un amore assopito e riscoperto, che desidera crescere e consolidarsi, di un richiamo irrazionale dal quale, ormai, è difficile divincolarsi.
Un giorno Dio lasciò sulla terra un’orma, una pedata…la più perfetta, l’unica: ICHNUSA.
Quello è stato il mio giorno migliore.
ANNA MARIA DI PLACIDO
Ovindoli (L’Aquila)