Prima riga del prologo: “A volte sembra che per star bene si debba recitare”.
È la vita che è complicata, e forse recitare è la soluzione. Se poi ci si ferma un attimo a fare un bilancio, e un bilancio non si può mai fare, allora si può mettere in scena quello che si è vissuto.
Teatro, recita, come regressione verso l’origine di quella malattia che è il male di vivere. Così la recita diventa vita stessa, e potrebbe essere la via per salvarsi.
Isabella Mastino, nel sul ultimo libro L’ellissi (Echos Edizioni, 2021), fa specchiare vita e recitazione inoltrandosi nel mare della narrativa, sulla rotta del teatro autentico. Un esercizio stilistico non da poco, e sinceramente ben riuscito.
Edoardo, il protagonista del libro, è un professore di fisica di mezza età che sembra aver perso le coordinate della sua esistenza e che cerca di recuperare interiorità facendo il regista teatrale. Un ruolo catartico che crea la magia del teatro mettendo in scena la finzione vestita da realtà. O la recita di un sogno, che nel momento in cui si interpreta diventa sincerità.
Si potrebbe scomodare Pirandello coi suoi Sei personaggi in cerca d’autore per simboleggiare la vita che prende significato sul palco, più autentica che fuori dalla rappresentazione. Eccolo lì il gioco della recita che forse ti fa capire, che forse ti salva.
In realtà il libro della Mastino viaggia spedito sui binari della narrativa, sulla base di cinque racconti autentici.
Ci sono cinque amici, sei con il regista, che vogliono preparare uno spettacolo teatrale con cinque distinti monologhi. I testi vengono scritti dagli stessi attori per raccontare ognuno un episodio particolarmente significativo della propria vita.
Il libro quindi promette cinque racconti autentici che vengono recitati dai protagonisti. Ma la recita rappresenta la magia teatrale della verità che va in scena. E le storie sono confessioni, sono tratti di vita con svolte che forse non si erano ancora capite, e che andando in scena soffrono, annaspano, si sviluppano e si comprendono. Dalla vita reale al palcoscenico, e quindi alla vita. Percorso di solo andata.
Il primo e il secondo racconto si intrecciano come fili di una stessa corda. Al centro la contesa di una casa lasciata in eredità, che accende un confronto aspro tra zio e nipote. Dispetti, guerra di nervi, e il riaffiorare di scogli affilati di vecchi rancori che non si possono assorbire. Storie di cuore che vengono da lontano a mai assopite. Storia di una vita che deraglia perché la delusione d’amore porta tempesta interiore. Chiamate in causa, carte bollate, amori perduti, e soprattutto solitudine, quella che ti fa prigioniero e che non ti puoi perdonare.
Il primo monologo-racconto e il secondo, appunto, sono la stessa storia vista dai due lati diversi. È un fantastico espediente narrativo, quello della Mastino, per farci vivere due volte la stessa storia: una con gli occhi dello zio, e l’altra dal punto di vista del nipote. Il trucco, molto abile della autrice, sta che nel secondo monologo sembra di vivere una storia diversa. Una differente, anzi diametralmente opposta, visione della telecamera racconta i due episodi che percorrono strade proprie, anche se spesso si mescolano. Ma che comunque sono illuminate da luci diverse.
Così ci sorprendiamo a scoprire zio e nipote che vivono la stessa avventura, con tormenti, delusioni, e risoluzioni agli antipodi. Come fare una strada guardando dapprima il panorama che scorre dal finestrino di destra, e poi, lo stesso percorso, con gli occhi appiccicati al finestrino di sinistra. La stessa strada, ma due mondi diversi.
E l’epilogo? Ovviamente non lo diciamo, ma i due, è evidente, si arrabattano per cercare di salvarsi. Forse da se stessi.
Poi incontriamo Jole, innamorata di un violoncellista che la vita ha costretto su una sedia a rotelle. L’uomo, per disperazione prende le distanze dal suo strumento musicale, mentre la donna per arrivare a lui percorre la sua strada in funzione di quel violoncello. Che rappresenta il cuore, che rappresenta l’anima; che rappresenta quello che può andare storto e che ci si danna per recuperare. Ci si confronta su un percorso molto complicato, dove è facile sbagliare, ed è difficile rimediare. La lotta è col proprio interiore in un divenire in cerca di salvezza. Non diciamo se si trova, ma diciamo che comunque Isabella Mastino la disegna per bene con tutte le sfumature di una durissima conquista.
Nel monologo di Cristiano invece il piano narrativo sembra triplicarsi. Ci racconta di lui, avvocato che cerca di sollevarsi dall’appiattimento sentimentale e della sua vita, del suo sogno ispirato dall’ambiente antico del suo studio, e della vicenda di una sua cliente che porta in giudizio il padre di suo figlio. Un figlio che quello si ostina a non riconoscere neppure con la prova del DNA.
La tripla narrazione si sviluppa sulla psicologia del protagonista che nei tre fili conduttori ragione dell’amore, imposto, deluso o rubato, e della giustizia, che tira di scherma con i sentimenti; disarmati davanti alla giustizia stessa. Che rappresenta la vita, che rappresenta un equilibrio che si anela, e forse non si compie. Come l’amore. Perché, dice l’autrice:
“...l’amore, in tutto questo, continua essere la forza motrice e imperterrita della azioni dell’uomo, che possono essere buone... o malevole. Sempre di amore si parla, in fondo...”.
E L’amore ritorna protagonista anche nell’ultimo racconto, dove Nina si tormenta tra la paura del mare e paura d’innamorarsi. Il suo nipotino fa da catalizzatore, ma poi è lei che deve affrontare le sue paure, dell’acqua, di cadere e farsi male. Una chiarissima simbologia che ci accompagna per tutto il racconto facendoci capire che il viaggio, comunque, è soprattutto interiore e che una conclusione può essere spesso un nuovo inizio.
In questo studio minuzioso e accurato dei personaggi che si dichiarano, si smarriscono e si cercano tra recitazione e realtà, troviamo l’appassionante matrice comune di tutti i racconti. Che poi diventano sei, perché anche Edoardo, il regista, deve mettere in scena il suo travagliato cercarsi, tra amore e gusto della vita che si possono smarrire facilmente, e che è duro riconquistare.
Ecco la profondità del testo, così ricco di immagini e di simboli, che sicuramente non pretendono di indicare la strada a nessuno, che non propone soluzioni preconfezionate, ma che porta il lettore verso la sua strada. Verso la certezza che una strada si può sempre cercare, e che in quella strada c’è già un sogno chiamato amore. Che è già lì, ma bisogna scoprirlo.
Pier Bruno Cosso