Lo scrittore inglese Lawrence ci ha lasciato un mirabile ritratto della Sardegna in un suo libro che dalla Sardegna prende il titolo (Sea and Sardinia) e che Elio Vittorini ha tradotto in parte nelle Pagine di Viaggio edite da Mondadori. Lawrence ha trovato in Sardegna il tipo virile ideale secondo la sua concezione che esalta le forze primigenie della razza quali si manifestano nella distinzione e insieme nell’armonia dei sessi. Certamente pochi altri paesi si prestano meglio a una simile interpretazione.
Del resto egli non fu il solo ad esaltare la fierezza e la virile dignità dell’uomo sardo. Se ne è parlato fino alla nausea, da Padre Bresciani in poi, fino a farne un luogo comune letterario; e tutte le buone qualità morali che ai sardi si riconoscono universalmente, quali la fedeltà, l’amore per la patria e per la famiglia, il coraggio, la lealtà, ecc. ecc., vengon fatte discendere da quella qualità fondamentale. Una volta fatto questo riconoscimento, sia lecito, a me sardo, porre una domanda. Come mai un popolo così ricco di qualità morali e tutt’altro che privo di intelligenza (chiunque sia stato in Sardegna sa che la media dell’intelligenza è elevatissima) non ha lasciato tracce di sé nella storia; come mai la Sardegna non ha avuto nessun grande uomo? Si annoverano insigni studiosi, giuristi, qualche storico, qualche buon generale, ma veri e propri grandi uomini no. Sembra sia negata, a noi sardi, quel tanto di fantasia che occorre per essere dei grandi uomini.
Solo due personaggi della storia sarda hanno questo carattere di fantasia: Eleonora d’Arborea e Grazia Deledda. Ma sono donne, non uomini. Sarebbe interessante studiare il carattere di queste due donne per arrivare a stabilire fino a che punto la loro forza riposi su una concezione matriarcale della vita che solo in parte contrasta con la famosa irsuta virilità degli uomini sardi. Perché una specie di matriarcato vige, in realtà, in Sardegna. Direi un matriarcato clandestino, che non è tornato alle antiche forme barbariche solo per una innata delicatezza e discrezione della donna sarda. Con tutto il rispetto che ho per i miei conterranei di sesso maschile (e con loro buona pace) devo rivelare un segreto che pochi conoscono. La armonia tra i due sessi, che Lawrence esaltò parlando della Sardegna, in realtà non esiste. In Sardegna la società è formata da due parti che legano male, come una medaglia fusa in due metalli diversi.
Se noi consideriamo la vita di un qualunque villaggio sardo – la vita di tutti i giorni, in tutti i suoi aspetti – noi vediamo che esiste una differenza profonda tra la vita degli uomini e quella della donna; tra la concezione del tempo che ha l’uomo e quella che ha la donna. E vediamo che tutto ciò che dipende dalla donna funziona, mentre tutto ciò che dipende dall’uomo funziona male. È l’uomo che costruisce la casa, ma le case sarde sono tra le più brutte e le più miserabili che si possano vedere sulla faccia della terra: la donna non solo rende abitabili queste povere case, ma dà loro un’impronta di civiltà con poche cose essenziali. I tappeti che essa fabbrica sono vere e proprie opere d’arte. L’uomo fa le strade, ma le fa male e non ne cura la manutenzione. I veicoli che percorrono queste strade sono ancora quelli dell’età preistorica. Non sarebbe possibile trasportare da un paese all’altro o dal podere alla casa altro che delle pietre, o tutt’al più delle patate. Invece si trasportano dolci, e chi è stato in Sardegna sa quanto squisiti e delicati: si trasportano grazie alle donne. Sono esse che viaggiano con un cestello sulla testa. Io amo il loro lungo passo matriarcale e leggero sotto le vesti scure.
Guai se in Sardegna non ci fossero simili donne. Saremmo senza remissione riprecipitati sulle barbarie di cui stiamo sempre sull’orlo. Pur essendo cessate ormai le ragioni che determinarono quella sorta di urbanesimo che paralizza la vita rurale sarda, i nostri contadini continuano ad abitare grossi agglomerati urbani, e la campagna è deserta. Il sardo, pur in uno spazio ristretto, si sposta come un nomade per andare a coltivare il grano o a pascolare le pecore, dorme all’addiaccio, si cambia la camicia una volta al mese. La donna lo raggiunge come può, gli fa sentire la sua presenza costante, vigile. E quando il contadino o il pastore sperduto nella solitudine trae dalla bisaccia il tovagliolo di lino in cui è avvolto il pane, si spande di là, non soltanto materialmente, la fragranza della casa. Pane e lino si rifanno a una tradizione essenziale quanto antica di civiltà, e solo la donna ne è depositaria e custode. E non credo che sia esagerato affermare che le catalogate virtù di cui noi, uomini sardi, ci fregiamo, e che rientrano nella categoria generica e appariscente della virilità, non siano altro che riflessi di vere, profonde, silenziose e solide virtù femminili a cui nessuno ha finora pensato di dare un nome.
Benché sardo, qualche volta guardo i miei sardi con sorpresa. Non so del tutto spiegarmi certi loro modi, certo piglio eroico. Non che siano degli spacconi: sono sobri nei gesti e nella parola. Pur tuttavia hanno un certo modo di buttarsi il mantello sulla spalla come se andassero a compiere chi sa quali imprese. Invece vanno semplicemente a riportare all’ovile i bidoni vuoti. Si mettono in testa la berretta come un elmo antico, e questo è un po’ esagerato, anche se vanno a caccia del cinghiale. Forse, se invece del mare avessero avuto intorno ai loro monti le pianure dell’Asia, questi cavalieri sarebbero stati dei conquistatori. Anzi saremmo stati, perché ci sono anch’io. Ma noi abbiamo paura del mare. Ne stiamo a rispettosa distanza. E’ questo che ci manca per essere davvero eroici, davvero come ci vedeva Lawrence. Abbiamo una paura ancestrale, invincibile. Chi sa quale immane naufragio ci ha travolti in tempi antichissimi. Basta guardare un sardo per capire che non va d’accordo con l’acqua. Persino i nostri cavalli, quando vedono il mare, puntano i piedi.
Ma è la nostra paura che si trasmette ad essi come una scossa elettrica. Sta a noi riscattarcene; ma finora non ci abbiamo ancora pensato seriamente. Io penso alle nostre donne come a tante Penelopi senza Ulisse. Per secoli e secoli sono state al telaio a tessere quei tappeti di cui, noi uomini, siamo fieri, e che sono, in realtà, molto belli. Ma quei tappeti avrebbero il valore che noi uomini gli attribuiamo solo se fossero stati tessuti durante la nostra assenza, mentre noi navigavamo in mari lontani, ed esse erano là, nella antica casa, ad aspettarci. Invece noi eravamo appena a qualche chilometro di distanza, a mungere le nostre pecore, oppure seduti per ore e ore a canticchiare qualche nenia e a tagliuzzare col nostro temibile coltello un gambo d’asfodelo. Mi si dirà che esagero, che i sardi hanno dato prova di esser dei buoni soldati e di poter essere, all’occorrenza, temibili banditi. D’accordo; ma era il meno che potessero fare per tentare d’adeguarsi a donne come le nostre.
Donne così fedeli, così costanti, così coraggiose, così resistenti alla solitudine eran fatte per esser mogli di uomini che non avessero paura del mare e dello spazio, mogli di grandi navigatori. Io me le immagino sedute al loro telaio, ma al centro di continenti e di oceani, punto di partenza e punto di approdo. Povere mogli di eroi deluse! Solo al tempo dei nuraghi i sardi fecero qualcosa di veramente importante. Quella volta furono gli uomini, credo, perché si trattava, per costruire quelle torri a tronco di cono che servivano da fortilizi, si trattava di trasportare e collocare a regola d’arte, dopo averli squadrati, massi di granito del peso, talvolta, di qualche decina di tonnellate.
E se si pensa che di queste torri in Sardegna, tra grandi e piccole, se ne contavano circa ottomila, si deve ammettere che i sardi dovessero essere abbastanza bene organizzati. Inoltre, per fare opere del genere, bisognava avere cognizioni architettoniche che presuppongono un alto grado di civiltà. Ebbene, ciò nonostante, non si trova una sola iscrizione dell’età nuragica. È uno dei tanti misteri che gli archeologi non riescono a spiegare in Sardegna. Ma ciò che rende il mistero più interessante, è che questa mancanza di iscrizioni si accorda perfettamente con la ripugnanza innata e persistente nei secoli che i sardi hanno per l’alfabeto.
Il nostro analfabetismo è granitico, nuragico, eppure ci sono dei sardi analfabeti e tuttavia intelligentissimi e anche, in certo senso, civili. Ciò può essere: basta pensare, per esempio, a Carlo Magno. Il sardo odia l’alfabeto come odia l’acqua. Anche l’alfabeto è spazio, come il mare. Sono due ripugnanze che si spiegano a vicenda. Non così per la donna. La donna sarda non odia punto l’acqua: basta vederle quando vanno al fiume, estate e inverno, indifferentemente. E di solito sanno leggere e scrivere. Ma il fatto veramente degno di considerazione – che è anche il secondo segreto che mi proponevo di rivelare – è questo. Gli archeologi non hanno abbastanza apprezzato il contributo dato dalle donne in genere alla civiltà nella creazione dei simboli che divennero poi ideogrammi, geroglifici e, infine, lettere dell’alfabeto. Forse nessuno ha osservato la delicatezza femminile dei più antichi ideogrammi, tanto egizi che cinesi. Certamente è una mano di donna che li ha tracciati. Potrei darne prove sicure. L’uomo, solo in seguito, col suo razionalismo, li ordinò e coordinò; e ne nacquero geroglifici e alfabeti.
Ebbene, la donna sarda non mancò, nemmeno in questo, al suo compito. Osservate i fregi dei suoi tappeti, i ricami delle sue tele di lino: cervi, colombi, galli, fiori…Non sono altro che simboli di un linguaggio ideografico di cui essa offrì all’uomo i rudimenti, ma che l’uomo sardo non seppe o non volle sviluppare. Dò ai miei conterranei questo modesto consiglio: attenti al linguaggio ideografico delle nostre donne! Scherzi a parte, impariamo dalle nostre donne a fare tutto ciò che finora non abbiamo fatto e che avremmo dovuto fare da secoli. Perché non basta essere fieri e virili per essere mariti di Penelope.