Non è né banale né tantomeno ripetitivo affermarlo, ma la Sardegna è per davvero una madre. Chiunque credo possa trovarsi d’accordo con questa dichiarazione d’amore. Per i nostri cugini italiani potremmo eccedere di sentimentalismo patriottico, o passare tutti come dei fanatici che richiedono un’ autonomia statale e territoriale. Non si tratta di una questione politica ma, piuttosto, di legame, di una stretta relazione tra noi e la madre per l’appunto. Questo è il motivo per cui, all’ennesima minaccia di un potenziale acquirente interessato a piccole aree della nostra terra, scatta lo stesso fastidio che si proverebbe in seguito a un furto all’interno della propria casa, o provate a immaginare, se la casa venisse scelta dal Comune come contenitore di rifiuti. Voi non difendereste la vostra casa?
Una visione troppo catastrofista forse, ma praticamente aderente alla realtà del passato e del presente. Vecchi schemi che si ripetono, come fossero calcificati all’interno delle nostre rocce. La questione discutibile non sta nel non accettare chi vorrebbe investire in Sardegna e magari provare a viverci. Il mondo è cosmopolita e in continua evoluzione, perché la nostra isola dovrebbe essere esclusa da questi mutamenti sociali?
Abbiamo già dato prova di essere un popolo ospitale, alle volte fin troppo. Piuttosto si potrebbe argomentare, casomai, sulla gestione di eventuali inserimenti ponendo dei limiti, su cosa possa o non possa essere affine al nostro territorio e al nostro modo di vivere, su come poter includere i sardi in queste realtà per evitare che, ancora, possano spostarsi come uccelli migratori. Dando uno sguardo alla storia emerge che la Sardegna, in quanto isola, in quanto luogo di mare e di terra, ha sempre vissuto sfruttando questi due elementi dominanti. Ha fatto in modo che nascessero gli artigiani del mare e gli artigiani della terra, o all’interno di una stessa famiglia, oppure produzioni satelliti di pochi operai specializzati con particolare maestria in una cosa specifica. In altri termini piccole imprese, portatrici di qualità uniche che si tramandavano e che estendendosi seguivano, seppur a rilento, l’evoluzione scientifica e industriale.
Qualcuno ce l’ha fatta, la maggior parte no.
Oggi però abbiamo enormi potenzialità: la green economy proietta verso un’altra direzione, verso l’impiego di una chimica e una tecnologia diverse. Vi è la possibilità delle energie rinnovabili e più o meno maggiori collegamenti col resto del mondo. Ma soprattutto abbiamo una percentuale maggiore di persone che hanno acquisito competenze, risorse che, con un piano strategico, possono essere sfruttate in sintonia con i mestieri tradizionali.
Si discute attualmente sulla scelta di istituire un bando internazionale per una tenuta agricola di milleduecento ettari di terra fertile, che difficilmente andrà a un’azienda sarda, o se sia opportuno continuare ad acquistare prodotti al supermercato la cui provenienza è dubbia. Sono entrambe azioni consapevoli? Certamente dei paradossi. I prodotti locali vincono dei premi nazionali per qualità e proprietà organolettiche e noi ne consumeremo degli altri sconosciuti, continuando ad ammalarci e bloccando ulteriormente i diversi comparti dell’economia nostrana.
La responsabilità è un affare grosso, che si ci si trovi seduti in poltrona o sulla sedia davanti alla tv. E’ una misura con noi stessi. E allora, ancor prima di affidarsi al mago occasionale per stravolgere le carte in tavola in attesa di una metamorfosi dall’alto, partiamo dalle piccole cose. Il cambiamento ha inizio con noi.
Foto credit Tore Serra