Da anni oramai si dibatte in merito a quali azioni si possano intraprendere per favorire lo sviluppo economico della Sardegna. L’analisi storica è inclemente, le politiche industriali anni ’50 e ’60 non hanno funzionato, i casi Alcoa – Portoscuso sono punte di un iceberg che caratterizza tutto il territorio sardo (la Nuova Sardegna riporta che ogni giorno in Sardegna muoiono 27 imprese).
Lasciamo agli storici l’analisi di cosa non abbia funzionato e perché. Il presente contributo vuole invece essere una riflessione su cosa si può fare, su quale possa essere la possibile road map per uno sviluppo economico durevole. L’approccio vuole essere eterodosso rispetto alla tradizione e intende analizzare non i problemi ma partire dai punti di forza, da quello che rende unico il panorama sardo: questo rende possibile un approccio propositivo, senza recriminazioni su inefficienze, ritardi, privilegi che nei fatti ci sono ma la lamentatio rischia di essere fine a se stessa.
Tutti gli studiosi del tema son concordi nell’affermare che il vantaggio competitivo di una realtà sia la sua location, dove questa realtà si trova. Per la Sardegna la location è unica: sia dal punto di vista geografico che climatico, dotata di un ambiente naturale unico e che neanche la vicina Corsica possiede.
Quali sono quindi i settori economici che possono trarre vantaggio da tale dote? Ad una prima analisi superficiale almeno due: l’agroalimentare e il turismo.
Il clima favorisce la produzione agricola anticipata rispetto alle altre regioni della Penisola (pochi in Sardegna si rendono ancora conto di quanto i carciofi di Valledoria e del Coghinas siano attesi nel periodo post natalizio e quale sia la disponibilità a pagare in contesti economicamente solidi). Forse non avrebbe neanche senso parlare di produzione agricola sarda ma ciascuno dei 4 (ex) Giudicati dovrebbe interrogarsi sul potenziale che la propria realtà esprime (le pesche di San Sperate ad esempio). Come può l’agroalimentare divenire un settore trainante per l’economia sarda? Molti, infatti, pensano che sia un settore a basso valore aggiunto, a bassa redditività ma non necessariamente è così. Certo, servono scuole che forniscano competenze - non solo tecniche ma anche gestionali - sulla conduzione di un’impresa agroalimentare, sul management delle imprese agricole. La creazione di un sistema economico basato sull’agroalimentare gestito da manager preparati che sappia trarre beneficio dal potenziale e dalla ricchezza presente.
L’idea è quella di passare dalla vendita in spiaggia di qualche forma di pecorino ad un sistema che faccia in modo che siano i clienti che magari facciano qualche kilometro per andare ad acquistare prodotti che altrove non trovano (si veda ad esempio l’ottima esperienza del caseificio sociale di Santadi).
Nel settore enologico le competenze tecniche sono diffuse e radicate, sembrano invece mancare le specificità manageriali, di marketing e di promozione di un prodotto che non sempre viene conosciuto. Quanti potenziali clienti conoscono i prodotti sardi? Oltre ovviamente all’agnello di Sardegna Igp, al pane carasau: si pensi ai mieli tipici Montevecchio, allo zafferano sardo, all’olio; spesso son gli stessi sardi a non conoscere i proprio prodotti.
In merito al turismo, è indubbio che la Sardegna goda di uno straordinario vantaggio competitivo che forse è stato colto solo in alcune realtà costiere come la Costa Smeralda, l’algherese, parte del nuorese e le zone del cagliaritano (come Pula ad ovest e Villasimius a est). Ed il resto? Difficile sostenere che l’Ogliastra, l’oristanese o il Sulcis Iglesiente con le specificità piemontesi Calasetta e liguri (di Pegli) dell’isola di San Pietro non possano essere considerate attraenti per il turista. La questione non è se la Sardegna, tutta, compresa la Barbagia e tutto l’entroterra possa essere considerato una meta turistica quale tipologia di turismo le differenti realtà sarde possono avere. Anzi, la domanda è legata al perché il turista italiano o straniero dovrebbe scegliere queste mete invece di quelle toscane, pugliesi o siciliane solo per rimanere in Italia.
Anche qui è una questione di attrattività turistica di capacità di marketing e di identificazione di quello che territorio può offrire che si non potrebbe trovare altrove. Molti anche giustamente possono ritenere che, certo, il caro traghetti rappresenti un freno ma non sia, al contempo, l’unico problema. E’ chiaro ed evidente che il problema del turismo sardo è che non si sia ancora riusciti a far conoscere il potenziale presente che non può essere solo lo straordinario mare ma il patrimonio artistico, storico culturale tutti le località possono offrire. Provo a fare alcuni esempi che partono dalla condizione media di un turista che deve in spiaggia, grazie al passaparola, ricercare dove ci sia la sagra delle frittelle, della pecora, della zuppa gallurese, dei malloreddus o le recite e i balli tradizionali. Spesso il turista ha la sensazione che questi siano eventi che i locali e che non vengano promosse quasi di proposito.
Favorire il turismo sardo vuol dire anche far conoscere il pozzo nuragico di Perfugas, l’altare di monte d’Accodi, i tesori di una città che non è solo un porto (Torres), il museo del bisso (a Sant’Antioco), la cattedrale di Tratalias nel Sulcis o quella di Saccargia nel sassarese.
La fortuna della Sardegna è quella di poter offrire al turista non solo le spiagge ma la storia, la tradizione (anche dei prodotti agroalimentari e vitivinicoli).
Sembra quindi che il potenziale ci sia, cosa manca quindi? Manca la capacità di fare rete, tra i vari attori che operano in Sardegna e che sono accomunati da questa opportunità legata al turismo.
Il sistema turistico infatti coinvolge il settore alberghiero (o delle casse in affitto o dei campeggi), la ristorazione, il vino e tutti i prodotti sardi e che si trovano solo in quella realtà, il settore artistico culturale (perché’ in altre regioni i musei sono aperti sempre e in Sardegna per visitare una chiesa non meno rilevante di quelle di altre regioni ci si deve rivolgere ad esempio al parroco per farsela aprire?).
Quanti posti di lavoro si potrebbero creare? Forse il flusso di denaro pubblico che ha caratterizzato gli ultimi decenni e che spesso è evaporato come un wadi sahariano ha ridotto le capacità e l’iniziativa dei sardi abituati ad avere il supporto del finanziamento pubblico? Sarebbe un disastro soprattutto con tutte le potenzialità che ci sono.
Sicuramente si può dire che l’affermazione “lo stato ci deve aiutare” o “lo stato deve intervenire” non sono sbagliate sono antistoriche. Non ci sono più i soldi e forse anche la mentalità politica è cambiata. Come può la pubblica amministrazione inserirsi in queste riflessioni? Storicamente alla PA si chiedeva di finanziare e non chiedere conto… ora alla pubblica amministrazione si deve chiedere di creare le condizioni, di fare in modo che le imprese che chi ha spirito d’impresa possa fare impresa. La pubblica amministrazione non genera ricchezza, le imprese offrono posti di lavoro e generano ricchezza ma non perché ricevono soldi per farlo ma perché è loro interesse farlo e perché c’è un sistema che invoglia a fare impresa.
Alla PA quindi si deve chiedere che i tempi per aprire un’impresa siano minimi e non quelli attuali, che si faccia partner delle iniziative imprenditoriali, l’obiettivo è che una sagra si faccia non perché il comune ha stanziato i soldi e copre le spese ma perché se è fatta bene il turista è disposto a prendere la macchina e spostarsi da Valledoria a Trinità D’agultu se c’è la festa della birra perché è fatta bene e soprattutto la gente è informata per tempo.
Alla pubblica amministrazione si chiede quindi di avviare un dialogo con le imprese con il mondo imprenditoriale affinchè non ci siano più rendite di posizione, monopoli, cartelli. La PA non deve essere imprenditore deve avere un approccio manageriale che si rivolga al privato creando le condizioni perchè possa fare quello che sa fare meglio: fare impresa.
La soluzione è quindi nel privato? No certo che no o almeno non solo. Le imprese e gli imprenditori non sono immuni da possibili critiche perché hanno fatto impresa spesso incentivati da fondi pubblici, anzi le cose si facevano fin tanto che vi erano i fondi disponibili.
L’idea è invece di prendersi le responsabilità facendo impresa, rischiando all’interno di un sistema che favorisce l’innovazione ed è in grado di comunicare il valore di quello che si ha. Quindi l’integrazione pubblico e privato nasce proprio nel momento in cui le due realtà svolgono la propria funzione: creare le condizioni per fare impresa il primo, fare impresa il secondo.
Cosa altro si può chiedere alla Pubblica amministrazione? Direi almeno tre cose:
1 – puntare sulla formazione di eccellenza (personale preparato è la premessa per lo sviluppo economico);
2 – facilitare il fare impresa (deburocratizzazione, fornire servizi, riduzione della pressione fiscale, favorire la ricerca e sviluppo, fornire know how per l’avvio di start up e reti di impresa);
3 – ridurre se non eliminare i contributi, gli incentivi alle imprese, le imprese non hanno bisogno di incentivi, hanno bisogno di clienti, mercati nuovi.
Non sarà semplice ma l’unica via, in un sistema economico aperto e globale, è quello di sviluppare una cooperazione pubblica amministrazione e imprese e tra imprese volta a creare un sistema che sia così capace di valorizzare il potenziale che è presente che anche le compagnie aeree e di traghetti faranno a gare per portare turisti in Sardegna al minor costo possibile e non ci sarà più bisogno che la Pubblica amministrazione faccia l’armatore ed eroghi essa stessa il servizio altrimenti oligopolistico chiuso e a dir di molti, inefficiente.
Emanuele Vendramini*
*Professore di Management Pubblico all’Università Cattolica del Sacro Cuore e alla Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Bocconi dove è anche direttore del Master in Management Pubblico. È ajdunct professor presso l’University of Alabama at Birmingham e visiting professor presso la DePaul University di Chicago, la Stellenbosch University in Sud Africa, la Hanoi University in Vietnam e diverse altre.