Che l’avvento di internet, ed in particolare dei social network, avesse cambiato in maniera sostanziale il nostro modo di approcciarci alla realtà è una cosa ormai risaputa, tuttavia i ritmi frenetici dei modelli consumistici imposti dal web non sempre si conciliano agevolmente con la lentezza della nostra quotidianità fatta di avvenimenti e di vite normali.
Accade pertanto che anche i nostri stati d’animo siano notevolmente condizionati dalla dinamicità con la quale riceviamo questo tipo di messaggi; di trovarci, quindi, vittime inconsapevoli di emozioni contrastanti in lassi di tempo relativamente brevi. Accade anche, e a dire il vero sin troppo spesso, di far confusione tra le due realtà e credere che la condivisione di un link su Facebook possa essere d’aiuto ad un piccolo bambino africano o un cinguettio su Twitter dare conforto ad un bisognoso.
Non è cosi, e in fondo lo sappiamo tutti. Nonostante ciò continuiamo a manifestare la nostra indignazione e la nostra solidarietà stando comodamente seduti sul divano di casa ad illuderci che un semplice click sia sufficiente a cambiare le cose. Siamo pronti a imbatterci in ore di navigazione virtuale, condannando disprezzando e giudicando le tante ingiustizie presenti nel mondo, ma non troviamo nemmeno il tempo e la volontà per recarci occasionalmente presso una emoteca a donare il sangue, offrire i nostri vecchi abiti ai senza tetto, fare del volontariato nella più vicina stazione di soccorso.
È l’indignazione 2.0. Quella che manifestiamo attraverso i social network. Quella che trova l’appagamento della nostra coscienza in un semplice “mi piace”. Quella che dura giusto il tempo della visualizzazione di una pagina e che si spegne una volta che abbassiamo lo schermo del nostro pc.
*FocuSardegna