Lo hai cotto sottoterra? Il maiale arrosto è stato appena servito in tavola, la domanda del “turista” sbarca a casa tua con un amico e una coppia di “continentali” appena scesi da un trenta metri nero come il carbone. Albero rigorosamente di titanio. Hai cucinato per loro, è la sera del 14 agosto, sei in Sardegna, sei sardo, sei in vacanza ma il cliché è in agguato dietro, davanti, sopra e sotto. Inesorabile come una doppietta nascosta dietro il muretto a secco.

 

 Hai voglia tu, di dire che l’isola è un’avventura fatta di silenzio, quando il tuo commensale è arciconvinto che tutti i sardi a Ferragosto siano intenti a cucinare un maiale sottoterra. Dio, scavare una buca, accendere un fuoco, infilarci la carne e poi tirarla fuori quattro ore dopo, quando si presume sia cotta ma forse l’hai bruciata. Ve li immaginate un milione e fischia di sardi impegnati in questa comodissima operazione culinaria? Lui sì: “Allora, come si fa il porceddu sottoterra?”. Sei al secondo mirto, l’ora del filuferru è ancora lontana, l’acquavite arriverà, ma il desiderio di infilzare quella sagoma con lo spiedo stillante di grasso cresce. Sorridi, ’che in fondo è un “continentale” a caccia di esotico, uno dei tanti. Sai, gli spieghi con gentilezza, quel metodo di cottura si chiama a carraxu, ma se proprio vuoi ottenere un maiale ben cotto senza infilare la testa in una buca rovente e rischiare di farti una messa in piega “alla fiamma”, quattro sono gli ingredienti da usare: legna, spiedo, carne e sale. Così gusterai una cotenna croccante, una carne né troppo asciutta né troppo grassa. Sorridi, perfido. Gli hai appena rotto l’incantesimo del “folklore”, si sentiva un intrepido Indiana Jones tra i nuraghi, pregustava il tuo racconto agreste osservandoti con il cipiglio del civilizzato alla ricerca del primitivo e dell’etnico. Sento la voce lontana di Francesco Cossiga che m’avverte: “Mario, stai attento, perché ora ti chiede dove trovare i sardi vestiti da sardi”. Sa passenzia, Franziscu, che pazienza fare l’indigeno che accoglie il “civilizzato”. Il quesito antropologico-stilistico arriva puntuale come il formaggio e il miele delle seadas, ma senza dolcezza: “Dove si trovano quelli in costume?”. Tiro un lungo sospiro, ci vuole pazienza con quelli a caccia di folklore a tutti i costi. Racconto che sì, mia nonna Desolina vestiva con sa gunnedda e su muccadori, era un total black molto elegante per i canoni dell’odierno (dis)gusto, ma i giovani sardi amano i tagli di Antonio Marras, evocazioni di un mondo che c’è, nonostante il turista a una dimensione che sei tu. In lui c’è l’Essere Nuragico, il mondo che gira intorno all’isola, giacche, pantaloni, gonne, camicie, maglie, tessuti, trame, sublimi ricami di una storia lontana e recente, tamburi che risuonano nelle foreste di leccio e le cronache radiofoniche dei gol di Rombo di Tuono: “Riva entra in area, scocca il tiro reteeeee!”. Tutto si tiene insieme, grazie al ligazzio rubio, il legaccio rosso dei nostri avi che assicurava pacchi, valigie, vite in viaggio. Emigranti. Marras, caro turista, tagliava i costumi per Kenzo come il pastore taglia la frutta con sa leppa, il suo coltello con il manico d’osso e la lama da samurai. I sardi, caro turista, sono cosmopoliti malgrado (dis)continuità territoriale sia una frase vuota, e se proprio vuoi intabarrarti in un abito che sa di nobile pascolo allora devi farti cucire un “su misura” di velluto da Paolo Modolo a Orani e anche con quest’armatura addosso non avrai mai il portamento regale di un pastore. Ma quelli vestiti in costume? Non so, non mi occupo del noleggio di sardi pelliti per servire la cena ai ricchi forestieri, non siamo in America dove si comprano compagnie teatrali Sioux a ore per trascorrere la serata.  Sapevo di qualche ristorante che vestiva l’arrostitore in velluto e camicia bianca. L’ideale sotto il sole d’agosto, il velluto.

 Sa, domani salpiamo e facciamo rotta per la Costa Smeralda. Buona fortuna, dico e sibilo: “Attenti…”. Perché? Indaga la signora, l’unica parte sveglia (e non solo) della coppia transumante. Entro in modalità Nelson: be’, intanto per noi sardi l’acqua è infida, i primi morti io li ho visti in mare da bambino e se navigate da queste parti… da Capo San Marco a Capo Marrargiu non avete ripari, tranne Bosa Marina, e dovete pregare che non si levi improvvisamente il maestrale… all’isola di Mal di Ventre se c’è mare grosso trovate scogli a nord  e una secca sud, ma la vostra crociera potrebbe finire sei miglia prima sullo scoglio del  Catalano. Lui ridacchia. Lei no. La dama ha un compasso in movimento sulla carta nautica. Passata Bosa, puntate verso Capo Caccia, senza maestrale è facile, ma se si alza mettete il salvagente. Se tutto va bene vedrete le rocce scure di Capo Caccia e poi l’Asinara e l’isola Piana che crea due passaggi: quello dei Fornelli e la Pelosa. Il più facile è il primo, ma se lo traversate con acque agitate e di notte avete buone probabilità di rifarvi la chiglia. A quel punto attraversate le Bocche di Bonifacio, facile facile, basta solo ricordare che qualsiasi perturbazione che viene da ovest si insacca nelle Bocche e il mare spinto dal vento s’imbizzarrisce come un torrente gonfiato dalla pioggia. Superate le secche e le raffiche di vento che a capriccio sbattono qua e là, il gioco è più o meno fatto, basta tenersi lontani dagli scogli che come squali emergono a pelo d’acqua. Facile facile, per un capitano come lei.

 Ride. Non sa un fico secco dei salvamenti in mare e non sa neppure che un mio parente, il comandante Giovanni Camedda, noto a tutti come Pittiriddoi, ne ha tirati su un bel po’ con il suo rimorchiatore. Eroe delle acque tempestose, altro che. Certo, in Costa Smeralda ora si può andare, non c’è più Berlusconi, dice l’armatore con il polso accessoriato Hublot. Immagino il naufragio del suo veliero in una secca malefica e il salvataggio con il Barbarossa di Cesare Previti per giusto contrappasso. L’hai voluto tu, penso, mentre scavo la buca dove cuocerlo per bene, a carraxu, a lui ’sì tanto caro. Prima cosa, la Costa Smeralda per noi sardi non esiste, è un marchio, quelli erano, sono e restano i Monti di Mola. E poi il Cavaliere a Villa Certosa non c’è e, in tutta franchezza, l’impaginato locale è diventato una noia mortale: incidenti stradali, tetti del mercato di Cagliari che crollano sul pescato fresco, raffiche di roghi, acqua con l’autobotte, regala una rosa e gli staccano un orecchio, panico in centro per un serpente tropicale, niente, non c’è bandana e neppure l’ombra di un Topolanek desnudo in piscina. E i vulcani che eruttano e gli appostamenti dei paparazzi e il vai e vieni di Vladimir Putin e la corsetta mattutina in tuta bianca. Niente. Emergono dall’acqua smeraldina scarti di lavorazione di vip, spiaggiati come impoetici ossi di seppia. E scusi, ma chissenefrega di quello che fate voi, esseri senza mitologia. Il Cavaliere era il centro di gravità mai permanente della movida. Materiale ad alta tiratura. E ora? Nada, non resta che pregare con il passo di Hemingway: “O Nada che sei nel Nada, sia Nada il tuo nome, Nada il tuo regno e sia Nada la tua volontà così in Nada come in Nada. Dacci oggi il nostro Nada quotidiano e nada a noi i nostri Nada come noi li nadiamo ai nostri Nada e non nadare noi in Nada, ma liberaci dal Nada; pues Nada”. Mentre mi guarda con l’interesse riservato a un bronzetto nuragico, compare il mio gatto, Dario, e il turista civilizzato lo guarda inorridito: lo fate uscire qui, libero? E cosa dovrei fare? Tenerlo al guinzaglio? Quello è un felino con un q. i. più elevato del suo, va in giro, felicemente randagio, e ritrova la strada di casa, di giorno e di notte. Cammina a fari spenti, lui. Lei invece, ricco cittadinu, qui in certi posti si perde. Per sempre. E muore di fame. Mentre il mio gatto  ama cacciare tortorelle che planano verso la spiaggia, ieri ne aveva una tra le fauci gentili, presa con un balzo da tigrotto. La signora emette un oh!, chiaro dissenso animalista che esplode con una domanda sospesa: ma lei non gli dà il Royal Canin… Ho il tremendo impulso di far girare una canzone di Piero Marras, una strofa soltanto, giusto per avanzare un caloroso invito: “Uomo bianco venuto dal mare / Come tutte le novità / A insegnarci di nuovo a parlare / A portarci la civiltà / Non vorrei la prendessi un po’ male / Ma rivoglio la mia identità / C’è soltanto una cosa da fare / Perché non te ne vai?”.

E ormai c’è ben poco da fare, è innescata la bomba a orologeria, siamo in piena esplorazione del mondo animale e lui, il capitano in blazer e bottoni dorati, non può resistere alla domanda che apre il baratro della serata: ma il sesso con le pecore? Mia madre coglie la domanda con gli occhi iniettati di polvere da sparo. Sorrido, è un’occasione d’oro per piantargli un Jolly Roger sul cuore. La signora ha gli occhi ancor più vispi. Lei, immagino, ha visto tanti anni fa il film dei fratelli Taviani? Ha vinto la Palma d’oro a Cannes. Vedo lo smarrimento sulla citazione cinefila e proseguo. Be’, dovrebbe leggerlo, “Padre Padrone”, il libro di Gavino Ledda, per comprendere la faccenda. E’ tradotto in quaranta lingue, non male per un figlio di pastore. Io lo lessi da ragazzino, era posato sul comodino di mio padre. E ricordo di aver visto quel film con lui, sul divano della nostra casa in piazza Stagno Pontis, a Cabras. E certo, capisco il suo interesse etnologico per il selvaggio e primordiale stupro dell’animale. Ma ho una domanda qui, sulla punta della lingua, ora schinchiddosa, sì, insomma, un po’ scintillante: cosa ne sarebbe stato di lei, ricco signore a vela, se all’età di sei anni fosse stato prelevato dal babbo e mandato a governare le pecore a Baddevrùstana? Unico mezzo di trasporto, il mulo. Niente Suv. Niente barca. Niente telefono. Niente tv. Niente internet. Solo la fisarmonica, per un bambino strappato alla scuola elementare. Ah, certo, lei mi ricorda la pagina di sesso con gli animali, eh sì capisco che la battuta sulla gallina con il culo caldo le faccia venire un certo fremito alle sue parti basse perché quelle alte hanno un problema di connessione. Però sa, mio caro civilizzato capitano d’alto bordo, a me piace ricordare Gavino Ledda figlio di un pastore senz’anima, un bambino di Siligo buttato nell’arena del pascolo, della pioggia, del sole, dei sassi, che si laurea in Glottologia, viene ammesso all’Accademia della Crusca, scrive un romanzo in purezza e durezza, nato povero continua a essere povero, di una povertà assoluta, silente e disperata. Silenzio. Mi rivolgo alla dama: veda, signora, un cantautore sardo, Piero Marras, ha trasformato in arte quel passaggio, c’è un brano intitolato “Stazzi Uniti” e, a un certo punto, ecco, proprio qui, si fa e disfa in musica l’episodio che tanto vi attrae: “Su vieni avanti dai Gavino / sei l’attrazione della Festa / fa un po’ vedere alle signore / come si fa come si fa / con una pecora l’amore / vero folclore e sardità”.

In ogni caso, visto che siete così tanto interessati a contribuire alla nostra nuragica esistenza, potete adottare una pecora a distanza. Lui, irrecuperabile, continua a ridere. Lei assume lo sguardo di chi sta scoprendo qualcosa di pericoloso, ma attraente. Come una pecora in adozione? Ma certo, voi la adottate, versate la nobile somma per la nobile causa al pastore e lui manderà il formaggio, la lana e il latte della vostra pecorella direttamente all’indirizzo del vostro loft sui Navigli o al  pentavano con vista sul Colosseo. Le vie del commercio sono come quelle del Signore, infinite. E il pastore sardo sta con Dio, sempre.  Oh, ma è stupendo! Erompe lei, in pieno acme filantropico. Sul tavolo nel frattempo sono comparsi una piccante burrida di razza, la bottarga di Cabras bagnata nella vernaccia, tagliata a strisce sottili, sposata con il sedano, una bottiglia di Nieddera, rosato figlio di un vitigno autoctono. Per l’armatore civilizzato e la sua signora non avranno mai l’effetto della madeleine proustiana – nessuna recherche, figuriamoci – ma dal ruminare e scolare si coglie la scoperta del gusto “straniero”, effetto spiazzante da recuperare subito con un tuffo nella banalità hard-boiled: e i sequestri di persona, ha mai conosciuto Mesina? Sul suo volto si disegna l’espressione di chi vuole darti un colpo basso. La nostra delinquenza, il banditismo, i sequestri di persona, i proiettili che sforacchiano i cartelli d’ingresso nei paesi. Benvenuti tra noi, i barbari. Sì, l’ho conosciuto Graziano Mesina, a Orgosolo, a casa della mamma, una donna che mi sembrava portasse nel cuore una cosa chiamata dolore. La signora ha un altro scossone, un brivido: oh, davvero? Siamo nel campo minato del fascino del bandito. Conosce, signora, una canzone di De André intitolata “Franziska”? No eh? E’ l’amore di una donna per un bandito alla macchia. Ascolti qua: “Hanno detto che Franziska è stanca di pregare / tutta notte alla finestra aspetta il tuo segnale / quanto è piccolo il suo cuore e grande la montagna / quanto tagli il suo dolore più di un coltello, coltello di Spagna. / Tu bandito senza luna senza stelle e senza fortuna / questa notte dormirai col suo rosario stretto intorno al tuo fucile”.

Oh, ma come si può amare un bandito? Dice lei, sospesa tra ammirazione e repulsione, tra cabina armatoriale e ovile. Si può, anche se non è consigliabile per un essere delicato come lei, madame. La macchia è il destino eterno del bandito: Grazianeddu tentò di evadere ventidue volte e per dieci gli andò bene. Matteo Boe è l’unico uomo a essere uscito avventurosamente dalla prigione dell’Asinara. Lo ricordo bene, lo sguardo di Mesina, occhi acuminati come frecce d’ossidiana. Eravamo a Orgosolo, nel bar del centro, volevo sapere che cosa ne fosse del piccolo Farouk Kassam. Bevevamo filuferru alle dieci di mattina. E non potevi di certo rifiutare il supremo invito a dissetarti a 40 gradi. E ricordo altrettanto bene le lettere di Matteo Boe. Una grafia quasi cuneiforme. Uomo colto e spietato, dava ai sequestrati dei libri da leggere, Kafka, Dostoevsky. Sequestrava e sparava in rima. La macchia. I banditi. Sapesse, signora, che storia cresce tra le zolle polverose di questa terra. Lasci la barca in porto con il blazer blu che l’accompagna. Vada a Orgosolo e sul Supramonte. Non parli. Respiri e basta. Se le riesce. Lei avrà certamente visto un film di Vittorio De Seta intitolato “Banditi a Orgosolo”, miglior opera prima al Festival di Venezia. Vecchia sigla della Titanus, un bianco e nero tutto immaginazione, prima scena epica, sembra un western di John Ford, querce secolari nella penombra, latrati, cani che puntano la preda, la caccia. E quella frase sui pastori: “Possono diventare banditi da un giorno all’altro, quasi senza rendersene conto”. E’ la storia di Michele, accusato ingiustamente di abigeato e assassinio di un carabiniere. E’ innocente, ma la latitanza, la montagna della Barbagia, per lui è più sicura. Michele, innocente, perde il suo gregge, perde tutto. E diventa quello che non voleva essere: un bandito.

Siamo al dolce. Il miele si scioglie sulle seadas, è ora di chiudere la cena come si conviene. Il turista civilizzato annuncia la sua partenza: andiamo, è stata una bella serata. Posso chiederle un’ultima cosa? Prego, mi dica. Cos’è quella maschera appesa al muro? Un Mamuthone di Mamoiada. Un po’ inquietante, ma bella, dove posso trovarla? In qualsiasi negozio, non si preoccupi. Quella è la Sardegna da comprare, pronto cash, in tutte le dimensioni e luoghi comuni, su misura per lei, il turista civilizzato. Adiosu.

Mario Sechi - Il Foglio

Fonte: http://www.ilfoglio.it/articoli/v/120122/rubriche/sardegna-folklore-libre.htm#.U_RbgSRelDh.twitter