Il messaggio da Bruxelles è arrivato forte e chiaro: senza industria non si cresce e non si crea occupazione. Perché è l’industria a creare i posti di lavoro più qualificati e meglio retribuiti e la maggior parte degli investimenti in ricerca e innovazione. L’export europeo deriva per l’80% dall’industria e ogni posto di lavoro nel manifatturiero permette di crearne fino ad altri due nel settore dei servizi.
Il rilancio del settore manifatturiero è stato posto al centro delle politiche europee, tanto che a gennaio la Commissione – con la Comunicazione “per un rinascimento industriale europeo” – ha elaborato una strategia per rilanciare il ruolo dell’industria nell’economia del Vecchio continente. Il Consiglio Europeo di marzo ha poi adottato questo Industrial Compact e ha invitato gli Stati membri a perseguire la via indicata dalla Commissione superando la logica di un’Europa postindustriale centrata su servizi e finanza.
Per la prima volta, in un testo approvato da capi di Stato e di governo, si riconosce che l’industria è un driver per la crescita e l’occupazione. L’obiettivo è di portare la quota di manifatturiero al 20% del PIL UE entro il 2020 (ora è al 15% in discesa di 3 punti rispetto al 2001). Per conseguire tali risultati per la prima volta l’industria europea, come l’agricoltura, avrà un suo bilancio con risorse pari a 150 miliardi di euro, un sesto dell’intero bilancio UE: oltre 100 miliardi da fondi regionali, 40 dal programma Horizon 2020 finalizzato alla ricerca e all’innovazione industriale cui si aggiungono i 2,3 miliardi dal programma Cosme per favorire l’accesso al credito delle pmi e i 10 dalla Bei. Il pacchetto prevede misure a sostegno di produzioni più tecnologiche e sostenibili e azioni di semplificazione burocratica con l’obiettivo di tagliare 40 miliardi di costi per le imprese. Da notare che il rilancio dell’industria ha un ruolo chiave in tutte le politiche di settore, in particolare dal pacchetto Clima – Energia. In altre parole, l’Ue ritiene che per ridurre le emissioni di gas serra, per migliorare l’efficienza energetica e per incentivare l’uso delle rinnovabili serve più industria, più innovazione e maggiore competitività. Ovvero, dobbiamo produrre veicoli verdi e materie prime ecocompatibili, progettare tecnologie intelligenti, puntare sulla bioedilizia e su prodotti più innovativi e meno inquinanti. A conferma dell’assoluta compatibilità tra le politiche industriali e ambientali europee. L’Europa dunque ha una strategia precisa per affrontare in modo trasversale i temi della crescita e della competitività, la crisi occupazionale e i problemi energetici e climatici.
E la Sardegna? Sarà pronta a cogliere le opportunità che arrivano dall’Unione e puntare decisamente su un’industria più tecnologica e meno inquinante? Se questa è la direzione verso cui si muove l’Europa, nella nostra isola sembra quasi affermarsi una cultura anti-imprenditoriale che si sta estendendo ormai a tutti i settori. Oggi imperversano i “comitati del no” che a prescindere si oppongono a tutto non solo nei settori energetico e industriale ma anche in campo turistico, estrattivo, infrastrutturale e dei rifiuti. Bisogna però superare questa sindrome nimby e riappropriarsi del concetto di sviluppo sostenibile che prevede piena compatibilità tra crescita economica e tutela ambientale.
Per agganciare il treno della ripresa occorre che la Giunta regionale sarda non rincorra solo le emergenze ma adotti una politica economica che punti sull’industria, e sul manifatturiero in particolare, settore chiave per la crescita proprio perché in grado di riattivare gli altri comparti. Bisogna concentrare le risorse in aree con forti potenzialità e ricadute sulla competitività: manifatturiero avanzato e stampanti 3D, bio-economie, reti intelligenti, componentistica per le rinnovabili, veicoli verdi. A ciò si aggiungono turismo e cultura (vere e proprie industrie da modernizzare con l’uso di nuove tecnologie e formazione) settori con importanti ricadute in comparti strategici come l’agroalimentare, le costruzioni, l’ambiente e trasporti. Insomma dobbiamo puntare sull’industria manifatturiera per realizzare un’economia integrata che valorizzi i settori economici con le maggiori potenzialità.
In Sardegna il settore industriale vale solo il 14% del valore aggiunto, in calo di ben 5 punti rispetto al 2008 con il manifatturiero che segna un misero 6%. La Giunta deve porsi l’obiettivo di portarlo almeno al 12% entro il 2020 attuando con immediatezza politiche efficaci e coraggiose con scelte chiare e responsabili. Occorre anzitutto utilizzare al meglio tutti i fondi europei della programmazione 2014-2020, soprattutto quelli messi a disposizione dall’Industrial Compact. Non possiamo più sperperarli o perderli per inefficienza, clientelismo, sagre paesane o corsi di formazione inutili ma dobbiamo canalizzarli verso investimenti aziendali concreti. Al contempo è necessario creare un ambiente favorevole allo sviluppo e alla competitività delle imprese attuando tre azioni strategiche: dotarsi di infrastrutture adeguate, far arrivare il metano e implementare una reale semplificazione burocratica. Queste sono le priorità per fare della Sardegna una regione in cui si possa investire e fare impresa per creare crescita e occupazione.
di Roberto Bornioli