-Natascia Talloru*-
Parigi per diversi giorni è stata parte dei discorsi di ogni nazione e l’informazione si è rivelata ancora una volta protagonista arrivando con le sue contraddizioni a scuotere i nostri equilibri precari. Quando si tratta di vite perdute trovo doveroso dedicare accuratamente ampi spazi di dibattito, ma nella nostra epoca della comunicazione veloce tutto arriva e scorre via rapidamente. In un attimo siamo stati Charlie ed ha prevalso un sentimento per così dire solidale e di rispetto nei confronti di chi ha perso barbaramente la vita, ma al contempo, nell’arco di qualche ora, dopo essermi saturata di immagini, scritture e riflessioni altrui, l’attenzione è caduta su un’altra questione: il timore dell’abitudine alla violenza, quel tipo di violenza che suscita magari un interesse maggiore perché dietro si cela il fanatismo islamico dalle alte ambizioni Occidentali, la stessa violenza che poi porta (giustamente) a scendere in piazza avvolti da buoni propositi di rivalsa pacifista, con la scorta dei capi di Stato che formano un muro di braccia come fosse una “romantique promenade” parigina.
Perlomeno Charlie Hebdo è riuscito a smuovere le acque stagnanti dentro di noi. Siamo stati tuttologi, esperti di satira ed esseri pensanti su temi riguardanti l’Islam, col risultato inconsapevole di accentuare la frattura tra europei e comunità musulmane ed innescando la miccia per reazioni a catena. La nostra risposta è stata istintiva davanti all’odio proiettato ma simultaneamente emergevano in me ulteriori quesiti. Pensando ad altri fatti recenti, le bimbe cariche di esplosivi sono apparse come immagini sbiadite con poche grida di appartenenza “Io sono una bambina nigeriana”; ruotando il mappamondo torniamo alla strage pakistana pre-natalizia che ha causato la morte di 145 persone, ma per loro nessun “Io sono un bambino di Peshawar”. E’ così tanto distante da noi da convincersi di non esserne immischiati? La violenza ha tanti volti ed il nostro paese ne è profondamente intriso: dallo sport ai casi di mamme omicide o alle tragedie familiari, ai soprusi sulle donne.
Dietro la nostra ondata di deresponsabilizzazione non si cela sempre l’Islam come causa di tutto. Arduo è accettare che la condizione attuale si sintetizzi chiaramente nella visione di una società violenta. Essa alligna in casa nostra col rischio dell’abitudine come fosse una questione di ordinaria amministrazione, come integrazione alla normalità. Nel nostro frenetico Mortal Kombat reale neppure i genocidi della storia pare siano riusciti a far cambiare direzione, e si ha la pretesa che la pletora di giornate dedicate a questo o talaltro argomento possano bastare.
Passando ai fatti nostri e per fugare ogni ombra di scetticismo, persino la nostra bella isola sembra contrassegnata dalla tendenza a comportamenti aggressivi e, secondo quanto riportato dalle associazioni di settore, in Sardegna a fine anno 2014 solo la violenza sulle donne risulta in crescita del 35%.
Intervenire su un’impostazione sociale labile in tempi in cui prevale il caos e l’assenza tipica, nel vero senso del termine, risulta complesso e richiederebbe un’azione efficace e rapida. Così accade che provando a mescolare mentalmente parole dal potente significato, si possa ottenere una specifica combinazione, e casomai, l’idea di una potenziale via risolutiva: volontà-educazione-giustizia-uguale-rispetto-futuro-libertà.
*FocuSardegna